“Perfino un formaggio o una forma di pane può essere autobiografico e diventare un vero e proprio testo perché non solo racconta l’abilità dell’artigiano che lo ha plasmato, ma descrive insieme sapori e profumi del territorio da cui proviene. Dunque ci parla di storia, di popoli e di tradizioni che hanno arricchito la cultura del nostro bel paese. Pertanto mi piacerebbe molto che il mio libro contribuisse all’economia rurale dell’Italia” dichiara l’autore del libro “I luoghi della mia anima” Angelo D’Amelio che, in un insolito percorso di ricerca e riflessione sul cibo, conduce il lettore attraverso un mondo fatto di sapori, sapienza e antiche memorie. La trama si snoda tutta in un viaggio attraverso i ricordi affastellati nella mente del protagonista e in un’affannosa ricerca di pezzi smembrati di un’infanzia dorata ricca di emozioni e sentimenti in una terra di fuoco e di meraviglia che la violenta corsa verso un modernismo artificiale e tecnologico vorrebbe far scomparire per sempre. Una terra bellissima e di frontiera che, seppur povera, si mostra sempre generosa a dispensare piccole gioie ai suoi abitanti: un’epopea silente di genti costrette a confrontarsi con le esigenze del quotidiano e alle quali la storia non dà voce ma essi stessi contribuiscono a fare la storia.
L’autore ci ricorda che i luoghi nei quali viviamo e le nostre tradizioni sono beni preziosi, da preservare con amore e rispetto perché ci sono stati consegnati per essere custoditi con cura ed essere tramandati a chi verrà dopo di noi. L’intuizione di questo libro nasce da una percezione naturale in cui i cinque sensi si incrociano e si mescolano insieme in una magia quasi perfetta, sicché un odore può farci sentire un suono, mentre un sapore può far sì che vediamo un colore. Il tutto, mentre leggiamo il suo libro, aiuta a formare un quadro, un racconto dove anche mangiare diventa una vera poesia. La parte innovativa di quest’idea è che il libro non è fine a se stesso, ma nasce con lo scopo di accompagnare il lettore nella degustazione dei prodotti tipici di una cucina contadina in uno scenario naturale senza tempo. Il risultato inatteso è che, tornando in contatto con i prodotti della terra e dedicando loro la necessaria attenzione, il lettore riscopre se stesso, quale essere umano e parte integrante della natura che esplora attraverso il gusto. Dalle pagine di questo libro si ricava l’indicazione manifesta di un’adesione ad un’idea necessaria di cultura della memoria, della tradizione, della terra, della natura, pilastri essenziali dell’esistenza comune ed esigenza di una costruzione d’ordine all’interno della quale l’uomo possa fondare il proprio vivere sano. Un libro ricco di descrizioni, immagini evocative e sentimenti in cui è racchiusa la sublime bellezza della nostra vita, come in un soffio dello spirito.
Con questa opera prima, Angelo D’Amelio apre grandi varchi raccontando la sua anima, quasi come una confessione e, per certi aspetti, come una liberazione, consentendo al lettore di guardarvi dentro. “I luoghi della mia anima” è soprattutto un libro d’amore, un amore condito di gesti naturali, di carezze, di abbracci, genuino ed immediato amore per le donne che fanno da contorno ad una terra magica ricca di antichi sapori. E’ così che storia, antiche ricette, magia, amore, fanno da scenario a questo coinvolgente racconto in cui le immagini di personaggi e paesaggi rivelano la loro anima in una serie di sequenze quasi “cinematografiche” mettendo a fuoco un protagonista che si fonde con le sue stesse sensazioni, le sue stesse visioni e umane percezioni. Ecco un brano tratto dal libro “I luoghi della mia anima”, pag.77: “era un’umile famiglia di contadini con le facce fiere di essere gente del sud che offriva con dignità al destino la propria inerme nudità. Viveva inserita in un ecosistema che rispettava perché parte di un circuito cosmico, di una catena vitale e alimentare attraverso la quale stabiliva una osmosi con l’origine, con il seme, con il grembo della terra. Avevano facce vissute dal sole e vestite dall’aria, e come scriveva Pasolini: “dai negri ai terroni, dagli arabi ai sudamericani, hanno tutti in comune la colpa di avere i visi bruciati dal sole contadino, dal sole delle epoche andate”.
La memoria delle persone umili del sud è incisa nel vento, diventa vaga e inafferrabile come un flatus vocis, che sibila tra gli ulivi, ma non è raccolta né riconosciuta da alcuna memoria pubblica. Dinanzi ai miei occhi si stagliava, nel centro della sala da pranzo, una grande tavola imbandita in modo semplice ma decisamente invitante per il forte richiamo di odori che straripavano e mi assalivano ovunque e i variegati colori che decoravano ogni pietanza lasciavano alla mia fantasia ogni sorta di gustosa immaginazione. Una volta seduto, non esitai, dunque, a consumare avidamente quel pantagruelico e variopinto pasto fatto di fave e cicorie, cime di rape e lasagne, spiedini di coratella di agnello e uccelletti ben cotti, salsicce, melanzane, capriata, olive nere soffritte e, per finire, un buon vino Primitivo rigorosamente preparato e imbottigliato da loro. Ne gustai, per la prima volta nella mia vita, solo qualche stilla aiutato dalle mani sapide dell’anziana mamma che, con presunta saggezza contadina, avvicinando il bicchiere alle mie piccole e timide labbra, mi aiutò a scoprire un sapore fino ad allora sconosciuto al mio palato, ancora troppo giovane e incontaminato per apprezzarne a fondo la vera bontà e il gusto autentico. Intanto quel prezioso nettare degli dei si mescolava ai sapori più famigliari del latte materno i cui residui ancora giacevano negli anfratti del mio piccolo stomaco come i resti di un relitto in fondo al mare”.