“Basta! Mollo tutto e mi apro un ristorante!” Mettersi in proprio e diventare imprenditori nella ristorazione pare essere diventata l’unica via d’uscita dal tunnel quotidiano, fatto di stress in ufficio, il capo despota, i colleghi carrieristi più spregiudicati, e lo stipendio a fine mese che non basta mai. In questi ultimi anni di crisi economica mondiale poi, molti perdono il lavoro e sono costretti a reinventarsi, ecco allora che nascono le professioni più bizzarre… Per citare una celebre frase di J.F. Kennedy: “Non chiedere cosa il mondo del lavoro può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il mondo del lavoro”.
A lume di logica quindi rimettersi in gioco e riscrivere il proprio futuro professionale sembrerebbe più un’operazione di marketing che una semplice necessità dettata dal bisogno quotidiano. Sorvolando su professioni come ad esempio il restauratore di nani da giardino oppure il consulente per “piazzarsi in pole position su google”, o ancora l’insegna vivente fuori ai locali… molto più semplice e comune è proprio il lavoro legato a una passione tutta tricolore, la cucina! Tanto che aprire un ristorante, almeno a dare retta ai sondaggi, sembra essere il sogno nel cassetto della maggior parte degli italiani. Ex manager, avvocati, agenti di commercio, medici, infatti intraprendono sempre più spesso una nuova strada diventando ristoratori.
Il ristorante perfetto, che risiede nei pensieri utopici di ognuno di noi, è situato in uno scenario da paradiso come la spiaggia dell’isola di Koh Lanta in Thailandia o più nostranamente a piazza San Pietro a Roma, in cucina la mamma o nonna, in sala ci siamo noi con l’aiuto di un fratello o amico fidato, che proponiamo agli avventori piatti dai nomi deliziosi, con i migliori ingredienti provenienti da tutte le parti del mondo, pochi tavoli, molto guadagno e a fine esercizio poche tasse da pagare.
Troppi fattori esterni purtroppo intervengono e impediscono che un sogno simile si avveri, tanto che la realtà attuale evidenzia un sostanziale aumento di nuove attività commerciali, ma dall’altra una vertiginosa diminuzione in percentuale di esercizi chiusi negli ultimi due anni. Cos’è successo? Sembra proprio che sia indispensabile cambiare “ricetta”. Non basta più infatti aprire un ristorante tradizionale dove servire cibi buoni e genuini presentati da un buon servizio.
Oggi il cliente di un ristorante è paragonabile a un consumatore vero e proprio di un prodotto, e quindi le tecniche di marketing e comunicazione entrano inevitabilmente nelle scelte strategiche anche della ristorazione. Non si va più a cena fuori e basta, si “compra” un’esperienza, si va in cerca di un’emozione. Protagonisti sono gli chef che si rincorrono nel proporre sempre più strambe e ardite ricette, con ingredienti introvabili e metodologie che si avvicinano più alla chimica che alla cucina.
La crisi ha colpito persino i tanti ristoranti stellati dalla guida Michelin in cui il prezzo di un pasto raggiunge sempre più cifre da capogiro e le pietanze a disposizione non incuriosiscono più, insomma non ne vale più la pena! Un esempio su tutti: il celebratissimo chef spagnolo Ferran Adrià, vate della cucina molecolare, che ha raggiunto l’apice della sua fama nel momento in cui la nouvelle cuisine destava grande interesse tra i fornelli mondiali, ha deciso di chiudere il suo ristorante El Bulli, tre stelle Michelin per tre anni consecutivi. Il motivo, secondo lo stesso Adrià, sarebbe imposto dal pressante bisogno di tempo per riorganizzare il menù e stupire ancora. L’impressione per i più maligni è che le innumerevoli polemiche per la dubbia salubrità dei prodotti impiegati per preparare questi piatti evanescenti che riempivano più la vista che il sapore abbiano fatto centro, e che quindi, forse, lo chef ridimensionerà un po’ le proprie ambizioni, staremo a vedere.
Il settore della ristorazione insomma si diversifica sempre di più: quella tradizionale che include 62.000 imprese con 370.000 addetti e un fatturato di 20 miliardi di euro l’anno, accanto alla ristorazione moderna comprensiva di 70.000 imprese tra snack-bar, fast food, pizzerie a taglio ecc., con 240.000 addetti e 10 miliardi di euro l’anno di fatturato. L’indagine del Centro Studi della Fipe-Confcommercio ha rilevato che in Italia l’evoluzione delle abitudini alimentari e della cultura del pasto fuori casa negli ultimi anni è stata marcata: si mangia molto più spesso al ristorante, che è percepito anche come occasione di recupero e valorizzazione delle tradizioni enogastronomiche italiane e momento di intrattenimento e socializzazione.
I ristoranti diventano luoghi polisensoriali dove non solo il gusto e l’olfatto vengono coinvolti, ma tutto il corpo, in molteplici sensazioni. L’indagine ha messo in risalto alcune formule emergenti in Italia: il restau-fashion (ristorazione moda-abbigliamento), lo young bar (un locale dove insieme a una birra è possibile comprare prodotti trendy), e winebar dove insieme alla degustazione di vini è possibile anche fare shopping di oggettistica collegata alla cultura enologica. Si cerca di creare un momento speciale andando a cena, da condividere con gli amici o con nuove conoscenze, come ad esempio avviene in diversi locali dove si usa cenare con il “vino condiviso”.
Dopo il vino a mescita e le mezze bottiglie arriva il bottle sharing appunto, in cui il regista della serata è proprio il ristorante che propone una bottiglia da condividere tra più tavoli di persone che non si conoscono ma che hanno in comune lo stesso interesse di degustare un buon vino. Dopo aver sondato i desideri degli avventori, e riconosciuto, e magari orientato, la loro preferenza per questa o quella etichetta, il ristoratore li presenta. Se tutti accettano la proposta, la bottiglia viene ordinata ed equamente divisa, dal ristoratore in persona. Una valida soluzione per chi non vuole rinunciare all’emozione di un’ottima etichetta, senza dover per forza acquistare l’intera bottiglia, e che permette inoltre di attuare l’abbinamento cibo-vino cambiando di volta in volta il calice ad ogni portata. Valida idea anche nel rispetto dei limiti di alcool imposti dalla legge per chi poi dopo cena deve tornare a casa in auto, e anche una buona occasione per fare nuove conoscenze poiché il vino diventa argomento di discussione e scambi di battute.
Un’altra tendenza proveniente dal nord Europa, ma che sta timidamente arrivando anche da noi, è quella degli underground restaurant: ristoranti segreti, un mondo nascosto dietro location improbabili come una lavanderia o un portone di una casa: un trend, questo, che non può non riscuotere successo poiché l’esclusività di questi posti li rende appetibili e glamour e fa sentire chi li scova importante un po’ come in una caccia al tesoro dove alla fine il premio è una cena intima, tra amici in cui la familiarità e l’accoglienza di chef e camerieri personalizzano il servizio nei minimi dettagli.
A fianco a questa moda che vede un ristorante legato all’evento, c’è una controtendenza fatta di locali vecchi e nuovi chiamati impropriamente “osterie” (anche con l’acca), in cui la clientela copre una fascia di età molto ampia, dai poco più che adolescenti, dotati di uno scarso potere di spesa, agli ultra cinquantenni che hanno voglia di mangiare cose buone senza impegno, magari con una tovaglia di carta. Locali in cui protagonisti sono il cibo non troppo elaborato e un’atmosfera gradevole, senza troppi fronzoli. Il tutto contenuto in una dimensione piacevolmente rustico chic.
Ma allora per aprire un ristorante ci vogliono numeri o sentimento? Diciamo entrambe le cose, se non esistesse l’una non potrebbe sopravvivere l’altra. Certo, si deve considerare che un ristorante è un’impresa e come tale tutto va ponderato con minuziosa attenzione, soprattutto i costi, perché ogni piccolo errore provoca un terribile ed irrimediabile effetto domino. Qualche adempimento burocratico è necessario come la licenza di somministrazione che viene rilasciata dal Sindaco del Comune di appartenenza. In genere i permessi sono concessi in numero limitato, e per questo motivo il valore di mercato varia dalle decine di migliaia di euro, nei centri più piccoli, a cifre superiori ai centomila euro nelle città più popolate.
Altro requisito è l’iscrizione al Rec (Registro esercenti commercio), accessibile a chi ha conseguito il diploma di un corso professionale riconosciuto dalla Regione e ha superato l’esame di idoneità della Camera di Commercio. Infine il locale deve essere in linea con le disposizioni Haccp per l’igiene alimentare e della legge 626 sulla sicurezza. Oltre a questi vincoli amministrativi, occorre considerare quali sono i costi fissi quali ad esempio l’affitto dell’immobile che non deve in linea di massima superare il 10% dell’incasso mensile, e quelli variabili come gli stipendi e la merce.
Inoltre lo chef, colonna portante del ristorante, non dovrebbe se possibile esserne l’unica, perché altrimenti si rischia grosso in caso di una sua repentina ed imprevista defezione. Diciamo che l’improvvisazione anche in questo caso è destinata prima o poi a diventare fallimento; attori e star dello spettacolo si sono dati molto da fare per investire i propri guadagni nel mondo della ristorazione, ma solo in rari casi hanno riscosso il successo sperato. Eccezion fatta per alcune star americane come Eva Longoria, la casalinga disperata più sexy della famosa serie televisiva, che a Los Angeles ha pensato bene di aprire un ristorante messicano very trendy: Beso. E lei, felice del risultato ottenuto, decide di aprirne un altro a Las Vegas. Jennifer Aniston ha pensato di fare virtuale concorrenza alla collega inaugurando di recente a New York un ristorante altrettanto glam.
Esempi italiani illustri ce ne sono eccome: Filippo La Mantia, “oste-cuoco” come egli stesso si definisce, è un uomo che si è saputo reinventare più volte nella vita. Siciliano Doc, è stato prima fotoreporter della cronaca nera palermitana, durante gli anni ’70-’80, in cui Palermo viveva un momento difficile e sanguinoso tanto che lo stesso Filippo era stanco di vedere e fotografare “morti ammazzati”. La brutta parentesi del carcere ingiusto, fatto con dignità nonostante l’assoluta innocenza dimostrata solo dopo circa sei mesi di detenzione, lo rende più forte e riflessivo, si rialza e si dedica al grande amore di sempre, la cucina siciliana. Gli odori e i sapori della sua terra erano sempre attorno a lui e l’hanno guidato attraverso percorsi fatti di spezie, agrumi e cous cous. Più volte insignito di altisonanti riconoscimenti come la nomina di ambasciatore siciliano del gusto nel mondo e miglior cuoco siciliano nel mondo, oggi Filippo La Mantia prende la cucina come filosofia di vita, perché cucina per gli altri come piace mangiare a lui. Nel suo ristorante sulla terrazza dell’Hotel Majestic a Roma delizia palati curiosi e critici, e quando la cucina rispetta l’identità delle materie prime non c’è paura di giudizi negativi, anche se c’è chi storce il naso e lo accusa di imperdonabile “eresia” per aver abolito aglio e cipolla dalle sue ricette.
Costruttivo esempio, questa volta romano, è Umberto Pavoncello, ex copywriter di successo che ha deciso di cambiare vita aprendo un ristorante nella stessa via dov’è cresciuto, nel ghetto di Roma. Tanto sudore, all’inizio, l’impressione di non farcela, l’insonnia che incombe, ma a chi adesso gli chiede: “lo rifaresti?” lui risponde sicuro che non tornerebbe mai indietro e ripeterebbe tutto. Il ristorante è Nonna Betta, alfiere della cucina tradizionale giudaico romana fedele alle regole alimentari kasher. Le ricette sono proprio le originali della nonna, e i racconti che intrattengono i clienti sono quelli appassionati vissuti da Umberto, che si è rivelato anche grande narratore.
Casi simili sono innumerevoli, alcuni anche molto noti, come quello di Andy Luotto, ex attore convertitosi ai fornelli in quel di Sutri, o di Patrizia Mattei, un tempo impiegata nell’industria farmaceutica ed ora chefesse di grido.
Se però non vi chiamate Eva Longoria e non avete tante idee, ma disponete di soldi (comunque sempre tanti) da investire nella ristorazione, non resta che affidarvi ad una catena di franchising, così che il know how e l’arredamento saranno per contratto di competenza del detentore del marchio, a voi “solo” il carico di energie economiche e fisiche, e l’obbligo imperativo di saper dimostare le doti indispensabili, ovvero l’attitudine imprenditoriale e lo spirito di squadra. Oltre naturalmente alla passione, il vero fattore X in grado di realizzare il progetto.
foto: Filippo La Mantia; Ferran Adrià ad un convegno internazionale di cucina; Patrizia Mattei; Andy Luotto e staff.
di Manuela Monteforte
(pubblicato su Aroma di gennaio/febbraio 2011)