Davide Paolini

Aroma incontra Davide Paolini, giornalista, scrittore, redattore della Guida Ristoranti del Sole 24 ore, nonché voce de “Il gastronauta”, il programma di cultura enogastronomica che va in onda ogni sabato su Radio24. Un “cane sciolto”, come lui stesso ama definirsi, del panorama giornalistico enogastronomico, che ama vivere il cibo per quello che è: un mezzo per conoscere il territorio e le persone.

La sua carriera inizia nell’economia e l’ha vista addirittura protagonista nel ruolo di amministratore delegato del Gruppo Benetton. Dall’economia, alla Formula Uno, fino all’enogastronomia: come è avvenuto questo passaggio?
La passione per l’enogastronomia è sempre stata viva: 25 anni fa ho iniziato a scrivere per il Sole 24 ore e ben presto mi è stata affidata la guida dei ristoranti. Da lì la strada si è progressivamente aperta e la mia collaborazione si è estesa a riviste di viaggi e cultura, come Panorama Style, Vanity Fair, Yachtman, fino a programmi televisivi come “Squisito” per Rai International e “I viaggi del gusto” sulla 7. Pensi che sono stato persino attore protagonista! Si trattava di un corto intitolato “Assaggi di cinema. Viaggio nei prodotti gastronomici della Toscana”, prodotto dalla Regione Toscana che è stato addirittura presentato al Festival di Cannes.

Lei è l’inventore del termine gastronauta: chi è e qual è la sua filosofia?
Il gastronauta è un cercatore del gusto, un amante della buona cucina che sia al contempo capace di veicolare la conoscenza di territori, persone, tradizioni. La filosofia del mio gastronauta è quella di valorizzare le eccellenze del territorio e sensibilizzare il pubblico verso la riscoperta dei prodotti artigianali, facendogli capire che artigianale non vuol dire necessariamente più costoso.

Molta fama l’ha raggiunta grazie al suo programma radiofonico su Radio24: come nasce la rubrica il Gastronauta? Qual è il messaggio che vuole comunicare e soprattutto com’è la risposta del pubblico?
La rubrica radiofonica nasce nel 1999 come integrazione alla mia rubrica sul Sole 24 Ore e da allora posso dire con soddisfazione che il pubblico si è davvero molto affezionato al programma: ogni sabato ricevo centinaia di telefonate in diretta e altrettanti sms. La gente che mi contatta ha voglia di conoscere, di informarsi, chiede consigli sui ristoranti dove andare a mangiare e sui prodotti.

Un paragone sorge spontaneo: possiamo definirla il nuovo Mario Soldati? Quanto c’è dei “Viaggi” nelle sue rubriche?
Magari! Ho grandissima stima di Mario Soldati e dei suoi lavori. Io ho due idoli letterari: lui e Italo Calvino. In quest’ultimo in particolare sono riuscito a trovare concetti a me molto cari, come quello di “mangiare il territorio”, espresso in alcuni dei suoi racconti quali “Sotto il sole del giaguaro” e “Palomar”. A lui devo la mia filosofia di vivere il cibo non come un fine, bensì come un mezzo per conoscere terre, tradizioni e personaggi.

Per certi aspetti la sua filosofia presenta punti in comune con quella di Slow Food. In che rapporti è con l’organizzazione di Carlo Petrini?
Negli anni ’90 ho avuto modo di collaborare con Carlin Petrini dando vita al progetto Milano Golosa, che poi è diventato il Salone del Gusto di Torino. Oggi conosco e frequento ovviamente i personaggi del settore, ma fuggo da legami strutturali: sono un cane sciolto! Solo così posso muovermi liberamente nel panorama della comunicazione enogastronomica, senza dover sottostare a vincoli di pensiero. Ne è un esempio il lavoro fatto con le guide: sono stato il primo con la Guida del Sole 24 ore a non mettere i voti ai ristoranti e oggi tutti parlano di eliminare i punteggi dalle guide… Il mio concetto di guida è da sempre stato diverso: i 620 ristoranti che inserisco sono unicamente quelli ritenuti validi e positivi da me e dai miei collaboratori. Ovviamente non sono tutti i ristoranti possibili, ce ne sono tanti magari altrettanto validi ma che non ho ancora avuto modo di visitare, per cui aspetto di recensirli. La struttura della guida poi è organizzata in maniera originale: la differenziazione di categoria ad esempio è fatta in modo simpatico, con una nomenclatura che va da “extra large”, a “dietro il bancone”, “carramba che sorpresa”…

 Lei vive a Milano. Come si mangia in città: solo moda o anche sostanza?
A Milano si mangia molto bene, ci sono quattro cinque ristoranti di altissimo valore. Certo, il legame con la cucina di territorio si è spezzato da tempo, ma è anche giusto così perché Milano è una metropoli, dove il pubblico viene per cercare la sperimentazione e l’innovazione. Come tale soffre inevitabilmente l’assenza di un ristorante medio o della trattoria. In ogni caso, non credo che ormai si possa tornare indietro alla trattoria della nonna, ma ritengo che il futuro della ristorazione milanese sarà quello di emulare le grandi città internazionali come New York e Londra ed indirizzarsi verso la creazione di grandi ristoranti di design, dove si va non solo per mangiare ma anche per godersi l’architettura.

E a Roma? C’è qualche ristorante capitolino in cui si reca volentieri?
Roma è una città molto legata alla tradizione per cui, oltre ai grandi nomi, ci sono anche ottime trattorie, dove poter godere di una serata più informale e genuina. Da una parte, ad esempio, apprezzo “Il Pagliaccio” che credo sia un ottimo ristorante dove divertirsi a sperimentare o, ovviamente, “La Pergola” di Heinz Beck, mentre dall’altra sono tentato da locali come il “Forno Roscioli”, l’antesignano di quello che nella Guida definisco il modello “dietro al banco” che sta prendendo largamente piede: ne sto scoprendo molti in giro per l’Italia e ho intenzione di inserirli nella prossima guida.

Uno chef italiano di cui ha stima?
Un personaggio a cui non è stata data ancora molta attenzione ma che secondo me ne merita tanta è Matteo Pisciotta, chef lombardo 40enne che circa due mesi fa ha inaugurato il ristorante “Luce” a Villa Panza, nel varesotto. Quella di Matteo è una cucina che parte da ingredienti del territorio, ma elaborati in chiave molto personale. Sono sicuro che nei prossimi anni diventerà uno dei grandi.

E a livello internazionale?
Mah, credo che a livello internazionale la situazione sia piuttosto ferma: i grandi chef sono quelli ormai noti che vediamo in tutte le grandi manifestazioni…

Cosa pensa della pausa di riflessione di Ferran Adrià?
Credo che Ferran sia l’unico genio culinario vivente. La sua cucina è un’arte e come tale non è un prodotto che può essere pensato ed elaborato in cinque minuti. Penso faccia bene a prendersi un momento per pensare al futuro ed elaborare nuove idee. Tra l’altro non dimentichiamo che nel suo ristorante il menù cambia due volte l’anno!

Parliamo del fenomeno di rinascita della piccola realtà artigianale italiana: è davvero tempo di ricerca della qualità o è solo una moda del momento?
Sono convinto che sia davvero un buon momento per la rinascita della realtà artigianale. Testimonianza valida ne è il successo che sta riscontrando la fiera Taste di Firenze, di cui io stesso curo l’organizzazione. Negli ultimi quattro anni la fiera è diventata un vero fenomeno: quest’anno abbiamo avuto ben 1.300 buyers e circa 250 artigiani, con un notevole afflusso di pubblico. Questo significa che la gente è sempre più interessata al prodotto e al rapporto diretto col produttore.

A tale proposito, ultimamente si è fatto un gran parlare di km zero, di biologico e di farmer’s market, occasioni atte a mettere in contatto i cittadini con la realtà contadina territoriale. Lei cosa ne pensa?
In realtà di nostro c’è ben poco, sono tutte idee mutuate dagli Stati Uniti, dove il concetto di km zero è di moda già da molti anni. Credo che del farmer’s market almeno si sarebbe potuto italianizzare il nome e chiamarlo “mercato del contadino”! A parte questo, è certamente utile e divertente, anche se in realtà sono davvero pochi gli artigiani che si affidano a questo tipo di distribuzione. Molti fanno riferimento ai GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) ma esistono anche tanti casari ed artigiani minori che non avendo i numeri sufficienti, non riescono a trovare mercato e rischiano di scomparire.

Qual è la soluzione?
Purtroppo non esiste una soluzione unica. Vanno bene i farmer’s market, va bene il turismo enogastronomico, come pure i mercatini e i reparti selezionati della GDA, ma sono tutte piccole gocce, che magari tutte insieme un domani potrebbero contribuire a difendere il nostro patrimonio di eccellenze.

Il gastronauta cosa si propone di fare in merito?
La sensibilizzazione del pubblico è la prima cosa per incentivare i produttori a difendere e mantenere vivi i loro prodotti tradizionali. Ed è un progetto che funziona: si pensi che da quando ho iniziato a curare la “Garzantina dei prodotti tipici italiani” le voci si sono progressivamente moltiplicate e oggi sono ben 3.500.

Quali sono i suoi progetti futuri?
Intanto, lo scorso marzo ho presentato il mio nuovo libro “Il gastronauta in Veneto” che racconta un viaggio di scoperta dei luoghi segreti della regione, tra borghi e paesi del Polesine, in cerca di piccole realtà artigianali e locali. Poi dal 2 al 5 luglio sarò impegnato con la prima edizione del Festival delle Passioni a Mantova, in cui collaborerò con il direttore artistico Roy Paci nella creazione di questo grande evento che ruota intorno alle nostre due grandi passioni: la musica e il cibo.

di Flavia Rendina
(pubblicato su Aroma di luglio/agosto 2010)