Lo spettacolo comincia, il ritmo dei suoni si diffonde poi lo spettatore viene assalito, stranito, ammaliato, da qualcosa che davvero non si aspettava. Che cos’è? E’ odor di soffritto!

Il soffritto è la base di tantissime ricette, è l’esperanto della cucina, l’elemento universale e democratico che tutti unisce: è pane e cipolla che tradisce la povertà di cui una volta ci si vergognava e al tempo stesso l’allegria e la polifonia multicolore (cipolla, carota, sedano, pancetta) della cucina interraziale.

Parte da qui, da un soffritto provocatoriamente e apparentemente fuori luogo, il percorso di Don Pasta, al secolo Daniele De Michele, giovane performer (difficile definirlo altrimenti) che unisce sul palco musica, gastronomia, filosofia e quant’altro gli sia utile per raccontare, provocando i sensi, le sue storie.

Per sua stessa ammissione non è particolarmente esperto di niente: “Gianni Mura mi ha definito il più grande cialtrone che lui abbia mai conosciuto, intendendo con ciò il suo massimo complimento” ci racconta e ride, divertito.

Non è un musicista ma è un grande appassionato di musica, non è un cuoco ma porta una certa cucina alla ribalta, è dj ma non di particolare levatura… E’ tutto questo ma anche molto di più in un percorso “che appare irrazionale eppure una razionalità ce l’ha”. Un modo per sorseggiare musica e vino in simbiosi con il suo pubblico. Nasce a Otranto e, al pari di molta gente “di giù”, il sud se lo porta comunque dentro, come l’atavico richiamo del sole battente, dei profumi e degli odori, del senso di riscatto di chi la povertà la vive come humus, anche se la vita lo porta a transumare altrove: prima studente di economia a Parigi nell’ambito del progetto Erasmus, poi Roma, quindi di nuovo in Francia a Toulouse. Il nome d’arte glielo danno a Parigi: di giorno studente e di notte dj, anima un bar senegalese, il Jungle Montmartre.

E’ il teorema “Italiano=pasta”, un luogo comune non necessariamente declinato in maniera razzista, a far scattare la scintilla. Daniele viene messo in cucina a preparare il piatto che, per eccellenza, rappresenta l’italianità e i commensali sono così soddisfatti da riconoscergli il titolo di “Don”: più rispetto che paura, nello specifico, per questo titolo di corleonese memoria!

Oggi Daniele de Michele alias Don Pasta vive a Toulouse, dove ha trovato l’amore ma anche le risorse e il sostegno per cominciare quello che allora poteva sembrare uno strampalato progetto e dove sta conoscendo proprio in questo periodo le gioie della paternità, ma gira l’Europa dei sapori mediterranei (Italia, Francia, Spagna) con i suoi progetti (Food Sound System, In the Food for Love, Cook and Roll Circus) che in sintesi consistono nel raccontare e cucinare le sue ricette legate alla tradizione popolare a suon di musica mixata o eseguita dal vivo, appunto, dalla Cook and Roll Circus Band.

Le storie, le ricette (scelte basandosi solo su ingredienti di stagione, i ricordi della tradizione popolare e le musiche costituiscono percorsi e abbinamenti, celebre ormai il binomio tra melanzane alla parmigiana e John Coltrane o tra Miles Davis e la focaccia di cicoria), riflessioni gastrofilosofiche facilmente condivisibili grazie all’attacco multisensoriale proposto da Don Pasta: “In fondo quando si cucina tutti canticchiano, no?”.
Alla fine del 2010, Daniele era a Roma per una “performance eno-musicale”: Wine Sound System – Blowin’ in the wine, un percorso in forma di gioco sui prodotti pugliesi, in cui il pubblico assaggia vari tipi di vino e per ognuno, insieme, si cerca di abbinare la canzone più adatta.
Potevamo non incontrarlo?

Ho raccolto un po’ di definizioni su di te: cuoco, direttore d’orchestra, dj, ecologista, economista, esule e gastro-filosofo… e mi sono fermato alla G! Tu se dovessi sceglierne una sola come ti definiresti?

Per affetto gastro-filosofo. Di fondo non significa niente e proprio per questo mi ci sono affezionato. Alla base io sono un economista con una passione spropositata per la musica… più che il dj facevo il selecter, il selezionatore, perché non avevo la tecnica del dj hip hop, e neppure la pretesa di chiamarmi dj. Gastro-filosofo mi è piaciuto di più perché aveva questa dimensione portata quasi al paradosso. Come dire: è possibile fare una filosofia spicciola, che è la filosofia del parlare come si mangia.

Nasce prima la passione per la cucina o per la musica?

Per la musica, assolutamente: come ascoltatore da quando ho 13 anni, da organizzatore di feste dai 17, da selecter dj dai 20. Nel ’94 poi ho cominciato a fare il dj. Il cibo più che una passione è quasi un pezzo di identità, perché io vengo dal Salento, un luogo dove il legame col cibo è un elemento costitutivo della società, uno strumento di identità comune, popolare, collettiva.

Sono odori molto intensi, eppure la Puglia non riesce, secondo me, ad “esprimerli pubblicamente”… La sua cucina è poco considerata, raramente la senti menzionare fuori dai confini regionali, eppure la gastronomia pugliese è fatta di piatti molto raffinati. Cosa ne pensi?

L’aspetto affascinante della cultura gastronomica pugliese è il suo essere assolutamente selvaggia. Una delle cose che io amo di più, a Gallipoli e a Bari, è mangiare tutto il pesce rigorosamente crudo: ad esempio quel polipetto che non si trova in nessuna altra parte del mondo. Anche l’uso dei legumi, fave e cicoria o la focaccia di cicorie, non si può definire propriamente raffinato, però possiede una “genialità della povertà” direi unica.

Una semplicità estrema…

Che non significa “banale”, perché parlare di focaccia e cicorie selvatiche, oppure di fave nette con le cipolle e l’aceto, vuol dire aver capito perfettamente le regole di base del cibo, che anche con niente si è in grado di creare un equilibrio perfetto. Quando ho scritto Food Sound System e dovevo parlare della focaccia di cicorie, le cicorie selvatiche, i capperi, le olive, le cipolle, parlavo di Kind of Blue, proprio perché questo disco ugualmente ha i più grandi geni della storia della musica là dentro che fanno pressoché niente e quel pressoché niente è l’assoluta perfezione! Se uno pensa alla cucina popolare in generale, devo dire che quella pugliese da questo punto di vista è affascinante proprio perché l’equilibrio si fa con niente, ma è un equilibrio di una complessità stupefacente: pensare al cappero per bilanciare l’acre della cicoria e poi mettere la cipolla per addolcire, poi rilanciare con il pomodorino e l’oliva nera, non è solo esercizio di stile, ma autentica poesia.

Alcuni chef, in particolare quelli campani come Cannavacciuolo o Esposito, stanno riscoprendo i sapori, proprio quelli di base, lavorati – come hai detto – di fatto con una raffinatezza estrema. È un tuo obiettivo quello di poter cucinare a quei livelli?

No, di fondo, io non sono cuoco e non ne ho la formazione specifica. Da sempre poi, anche un po’ per partito preso, ho evitato di parlare di grandi chef o di cucina alta, perché l’elemento che io prediligo, e che poi cerco di sviluppare nelle mie performance, è al contrario mostrare il valore culturale del cibo popolare, nel senso quindi democratico, accessibile a chiunque. E’ un po’ come Dario Fo che riscopre la tradizione orale e popolare e si rende conto che era assolutamente complessa ma rappresentata con parole povere. Quindi il mio obiettivo è piuttosto quello di poter continuare a raccontare una serie di piatti dimenticati, anche giocando sui paradossi culinari: i sanguinacci, le orecchie di porco, le palle del toro…

Qual è, se c’è, l’elemento scatenante che ha fatto di Don Pasta un teatrante?

Quand’è che da semplice nomignolo è diventato invece l’idea di offrire questo pacchetto di emozioni?
Come ti dicevo io non nasco artista, ero tutt’altro, un economista. E’ accaduto in due momenti: il primo è stato mettersi a scrivere, cosa che non avevo mai fatto prima. Lavoravo come dj in un baretto a Roma e passavo jazz con i vinili. Ad un un certo punto per coinvolgere i miei amici scrissi una volta sulla focaccia di cicoria e Miles Davis in cui spiegavo tutti gli equilibri… La gente mi disse: che ti è successo, com’è che hai scritto questa cosa? Accadde che a quel punto, visto che io facevo un appuntamento a settimana, i miei amici non venivano alla mia serata, però esigevano che io scrivessi un testo e questa cosa fu rivoluzionaria per me. Dopo un annetto e mezzo, ogni tanto cucinavo mentre facevo il dj, ma era un po’ così, improvvisata… Poi a Napoli alcuni cari amici di un collettivo di musicanti che suonano a casa (lavorano molto sul rapporto con la cucina popolare napoletana, la musica del Mediterraneo) mi dissero: leggi la parmigiana di melanzana, sì, sì, leggi questa cosa e noi ti accompagnamo… Così, io lessi questo testo, non sapendo leggere peraltro, e loro mi seguirono facendo My Favorite Things nella versione coltraniana e io mi accorsi, d’un tratto, che…

Funzionava..?

Questa cosa mi emozionava: sentivo assolutamente di esprimere che la parmigiana si mangia solo in agosto, con la nonna. Fa caldo, che tutta questa serie di ingredienti che si mischiano così bene dando origine ad un piatto buono, generoso, caldo… stava perfettamente nella storia. Fu come una sorta di illuminazione casuale, talmente forte che poi mi sono detto: vorrei lavorarci su. Fino a diventare Don Pasta.

Ho il sospetto, benché tu parli spesso della parmigiana, che il cioccolato abbia una funzione decisiva. Smentisci o confermi?

Confermo senz’altro! Il cioccolato è emozionante quanto la parmigiana! Rappresenta il legame con il proprio sud: con il cioccolato c’è un rapporto quasi sensuale, a volte sostituisce a volte consolida il rapporto con il proprio partner, proprio perchè è qualcosa di profondamente dolce, per certi versi erotico, per altri evocativo. In certi momenti di scoramento è una droga assoluta. Ci sono due dolci di cioccolata che amo particolarmente: uno è il semifreddo al cioccolato, lo fa mia zia ma non l’ho trovato molto spesso. E’ fatto di Pavesini bagnati nel caffè che in un certo senso circondano questa crema di cioccolato, burro e bianco di uovo montato. Una sorta di mostro cosmico! Una versione che è esattamente l’opposto, praticamente con gli stessi ingredienti, riscaldati, è quello che in Francia si chiama le fondant au chocolat, una specie di ciambellina esterna completamente fusa dentro. Entrambi hanno una funzione sensuale, sessuale, affettiva, consolatoria tanto quanto la parmigiana è un piatto di festa: la parmigiana è un elemento sociale, la cioccolata è un elemento intimo, a due in un certo senso. Un testo che scrissi sul cioccolato era con Ray Charles: mi immaginavo bloccato nel traffico, successe una volta, ascoltavo Georgia on my Mind e nella mia testa, non so perché, mi scorreva davanti quest’immagine del cioccolato fuso… e mi rasserenai.

Dei gruppi nuovi, a quali ti verrebbe voglia di pensare per abbinarli con un cibo che gli si attagli? Chi è che ti stimola, e ti fa pensare che mangi bene?

Bella domanda! Io sono purtroppo ancora molto legato ai suoni del passato, non per altro, in una finta intervista che faccio a Miles Davis gli chiedo: “Scusami, ma com’è che negli anni ’70 c’erano almeno cento geni? Dylan, Coltrane, Davis, James Brown, Bob Marley… E come mai adesso non ci sono più?”. Non mi pare che vi siano geni in circolazione attualmente, ho la sensazione che da vent’anni a questa parte non sia successo nulla di significativo. Sono affezionato ad esempio ai Massive Attack perché hanno inventato un genere, ma non sarei in grado di dire se sono all’altezza dei grandi maestri. Quindi faccio difficoltà a risponderti ecco, mi appello al quinto emendamento! Poi io sono molto curioso, ascolto delle cose di elettronica e mi immagino che quelli non mangino molto. Mi piacciono moltissimo i Sigùr Ros però non so se amino mangiare, me lo domando…

Ultima domanda: sei a casa, in una serata in cui finalmente ti godi la tranquillità in beata solitudine: che ti cucini e cosa ascolti?

Quando sto tranquillo, intanto, mi piace ascoltare cose molto rilassate: Nick Drake, sicuramente. Adesso è un periodo splendido, il periodo delle zuppe. Una bella vellutata di castagne e poi, fammi pensare… in Francia a Toulouse c’è l’anatra, il petto di anatra con il miele e scorze di arancio, che adoro!

Anche con i fichi…

Con i fichi, esatto. E poi, chiaramente, un fondant au chocolat!

di Paolo Corciulo
(pubblicato su Aroma di marzo/aprile 2011)