Secondo te cosa dovrebbe fare l’Italia per esportare oltre alla valanga di prodotti tipici “made in Italy” anche un poco della sua immensa e multiforme cultura gastronomica?
Una promozione, guidata da un preciso progetto di marketing, del “sistema Italia” agroalimentare, che coinvolga tutte le componenti della filiera, dai più piccoli agricoltori-vinocoltori alla grande industria e ai cuochi, secondo momenti, luoghi e modalità diversi. Bisogna esportare la cultura del “vivere italiano”, non solo i prodotti.
Il formidabile sviluppo del tema alimentare sta arrivando alle vette dei settori economico e culturale. Questo eccesso di manifestazioni fa proliferare orde di tuttologi, quali sono i criteri di orientamento che, salvandoci dall’insindacabile, ci fanno distinguere la solidità e la competenza di chi si propone come “esperto”?
Quando un settore “tira” è inevitabile che molti si improvvisino addetti ai lavori per cercare il business. Oggi si fa anche troppo e male, le istituzioni da un lato e i privati dall’altro, dispongono tuttavia degli strumenti e delle conoscenze per discernere tra professionisti e dilettanti, a ogni livello: bisogna saper scegliere.
Il fenomeno Slow Food di cui la maggior parte di noi ha seguito nascita e sviluppi, non ha secondo te superato lo scopo di promuovere e preservare la cultura enogastronomia mondiale e si presta più praticamente a creare intese con grandi aziende che comprano così nuova rispettabilità?
Del progetto iniziale di Slow Food non si dirà mai abbastanza bene, così come di alcune iniziative. Da qualche anno purtroppo alcune attività e alcune scelte sono ispirate a una deriva puramente commerciale: il Salone del Gusto è un’enorme fiera all’interno della quale è praticamente impossibile distinguere il buono dal mediocre e cattivo; mi pare che manchi qualsiasi filtro qualitativo, basta acquistare gli spazi e si può vendere qualsiasi cosa. Non mi scandalizza la massima presenza dell’industria se questa fa qualità.
Che consigli daresti a quei giovani che vogliono intraprendere la via della ristorazione, della cucina o addirittura della critica gastronomica?
Di studiare molto, di viaggiare, di guardare e capire, di assaggiare con il cervello prima che con il palato. E poi di ricordare che a mangiare si impara mangiando e a bere si impara bevendo. Non cercare scorciatoie, star lontani dai “cattivi maestri” e dalle mode. Insomma di farsi una cultura di base vera, non solo gastronomica e poi di arricchirla con umiltà, pazienza e curiosità.
Quali sono stati i momenti più emozionanti della tua lunga carriera nel mondo della gastronomia?
Sono fortunato e ho ormai 60 anni: ho vissuto tanti momenti importanti, felici e piacevoli a tavola, nelle cucine, nelle vigne e nelle cantine; soprattutto ho avuto modo di stringere e poi mantenere rapporti stretti, sul piano umano e dell’amicizia, con molti dei più importanti cuochi e vignaioli della nostra epoca, così comprendendo sempre meglio la loro personalità, i loro sentimenti, anche oltre il piatto o la bottiglia. Ma non saprei indicare momenti precisi, sono troppi.
L’ “Universo Cibo” e’ qualcosa in cui oggi rischiamo di perderci, interi capitoli della cucina di tradizione vanno sgretolandosi, scomparendo dalla memoria collettiva delle nuove generazioni. Non pensi che alla lunga tutta questa abbondanza di cibi, l’estenuante ricerca di originalità nel piatto, siano una minaccia alla già scarsa cultura alimentare dei nostri giovani?
Torno a quanto ho già detto poco fa: solo la cultura vera, solo basi solide di conoscenza possono aiutare oggi i giovani ad affrontare qualsiasi mestiere, compreso quello del cuoco. E più in generale è indispensabile un impegno di tutti, a partire dal Governo e dalle associazioni di categoria, per diffondere la “cultura dell’alimentazione”, a partire dalle scuole per esempio; il che non avviene certo attraverso il dilagare della presenza del cibo in tutte le sue espressioni sui media.
Parliamo di Guide: nella fattispecie la Guida dell’Espresso sottolinea che il giudizio delle schede si attiene unicamente alla cucina. Ma come e’ possibile in un secolo così frenetico e suggestionabile sottovalutare il potere del fascino che un luogo esercita condizionando in positivo o negativo la percezione del cibo?
Nella nostra Guida, attenzione! È solo il voto che giudica la cucina, tutto il resto, il commento scritto, riguarda gli altri aspetti del locale, che sono per il “cliente normale” importanti almeno quanto il cibo.
Ci sono pietanze che come le mode oggi cadono in disuso o vengono relegate in posizioni minori, ad esempio le zuppe o il riso, a cosa è dovuto secondo te?
Innanzitutto oggettivamente è sbagliato definire il riso come prodotto secondario, non foss’altro per il ruolo che ha, certamente superiore a quello della pasta, nell’alimentazione mondiale. Comunque le mode cambiano: per esempio vedo in Italia un ritorno importante delle zuppe, delle minestre e anche dei risotti che rientra nel fenomeno crescente della “voglia di semplicità”, della “voglia di trattoria”, se vogliamo di “comfort food” che emerge un po’ ovunque come risposta all’omologazione su piatti e prodotti estranei alla nostra cultura ma che comunque piacciono e si sono imposti sulla spinta di modelli proposti dalle mode amplificate dai media.
Qual’è secondo te lo stato di salute della cucina di Roma e del Lazio?
Roma, fra le più grandi città italiane, è quella dove si mangia meglio; c’è vivacità, ci aprono nuovi locali, ce n’è per tutti i gusti, compresi i “cattivi gusti”, trova soddisfazione sia chi cerca la tradizione, sia chi cerca la moda e le modelle… c’è anche ristorazione di effettiva alta qualità. Il Lazio, rispetto a Roma, è un po’ più indietro, ma anche in provincia si può mangiare molto bene.
Quali devono essere oggi, anche secondo i criteri della Guida che dirigi, i requisiti e le qualità di un bravo chef?
AROMA incontra Enzo Vizzari, direttore della guida de L’Espresso, per una breve chiacchierata sullo stato di salute della cucina a Roma e sui temi cruciali dell’enogastronomia.
L’ho detto: cultura tout court, cultura specifica teorica e pratica, curiosità intellettuale, come prerequisiti; e poi talento che è una dote che non si compra né si acquisisce: o c’è o non c’è.
Quali sono le figure di critico enogastronomico del passato o del presente che hanno lasciato un segno nella cucina italiana o mondiale e che segnaleresti come punto di riferimento alle nuove generazioni?
Per me Federico Umberto d’Amato e Luigi Veronelli, fra gli italiani; Henry Gault e Christian Millau tra i francesi; Michel Bettane e Jancis Robinson per i vini. Purtroppo sarebbe molto più lunga la lista degli esempi negativi, anzi deleteri, che affliggono l’Italia.