AROMA incontra Giacomo A. Dente, vicedirettore de la Guida de L’Espresso e critico culinario de Il Messaggero, per fare insieme il quadro generale della enogastronomia in Italia e a Roma.

Quando e come è iniziata la tua carriera di critico gastronomico?
Tutto comincia con mio padre e con mia madre, due persone straordinarie con un grande amore per la cultura. Con loro andavamo nei week end ad esplorare l’Italia e non solo, mettendo insieme cultura classica e cultura materiale: un “formato” che mi è rimasto dentro ancora oggi. Così si visitava un museo, si esplorava un borgo, si entrava in una chiesa e poi si andava anche a mangiare, cercando il ristorante giusto. A volte si consultava una guida, a volte si interrogava la gente del posto che aveva l’aria più affidabile. E’ stato a quel tempo che ho cominciato a formare un mio gusto, a rendermi conto delle differenze tra territorio e territorio e, in qualche modo, a costruire una sensibilità gastronomica. Da questo è nata la curiosità storica e la formazione progressiva di una mia biblioteca culinaria che è arrivata oggi a superare i 3.000 volumi. Il cibo, insomma, ma come parte di un affresco più complesso che collega storia e sociologia.

Il punto di svolta, però, è arrivato negli anni ’80, in maniera del tutto casuale. Ero stato invitato a una colazione all’Hotel Excelsior di Roma da un amico del Ministero dell’Interno che mi chiedeva spesso consigli di viaggio, visto che, secondo lui, avevo sempre la “dritta” giusta. Questo collega voleva farmi conoscere un suo amico Prefetto che, a suo dire, aveva la mia stessa passione. Così passammo un pranzo piacevolissimo in cui, senza rendermene conto, fui “interrogato” da questo Prefetto che, a conclusione dell’incontro mi chiese col suo vocione dalla forte inflessione napoletana “Ma, della Guida dell’Espresso, tu che ne pensi, guagliò?“. “Ne penso molto bene, anzi è la mia guida del cuore… anche se ci sono delle cazzate”, risposi senza esitare. Cazzate che spiegai al divertito interlocutore con argomenti a quanto pare convincenti se, alla fine della mia tirata, concluse ”Va buono. Allora, se vuoi, sei arruolato in Guida. Passa da casa mia dopo le cinque che adesso vado a farmi una pennichella”.

Sì, perché il misterioso Prefetto era Federico Umberto d’Amato, mitico direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, oltre che direttore-fondatore della Guida. Fu lui il mio vero maestro e con lui sono cresciuto da semplice autore a vicedirettore. E’ stata la Guida quindi ad aprirmi le porte del giornalismo gastronomico fino a quando Pietro Calabrese, un vero “minotauro” del giornalismo, oltre che grande amico, mi ha voluto a Il Messaggero. Da quel momento è stato un lavoro continuo, con personaggi golosi e intelligenti come Paolo Graldi, che mi ha lanciato nel difficile settore dei commenti di costume, e poi con Paolo Gambescia e Roberto Napoletano.

Tu che viaggi e hai modo di conoscere tante realtà nel panorama nazionale, qual è lo stato di salute della ristorazione romana rispetto a quella di altre città?
La ristorazione romana è molto vivace, ma senza dubbio soffre di gravi lacune. La principale riguarda gli standard del servizio, a dir poco mortificanti se comparati a Londra o Parigi, o a qualunque altra capitale che si rispetti. Un altro difetto è la mancanza di una pluralità di grandi cucine. A parte qualche giapponese decente, e una “rara avis” cinese, Il Green T., la cucina orientale è assente o penosa, per non parlare di quella araba, che è confinata a tristanzuole mise en scène di piatti discutibili con contorno di danza del ventre. Il problema, temo, è nella committenza: il pubblico romano è spesso pigro e conservativo. In città ci sono le “ambasciate” dei vecchi territori dello Stato Pontificio, insieme a qualche pseudo fusion, ma manca ancora molto per farne una capitale vera. Detto questo, meglio Roma di Milano e meglio Roma anche di Madrid.

Secondo te la media dell’offerta enogastronomica di Roma può essere equiparata a quelle di Londra o Parigi?
No, per i limiti che ho detto prima. Il problema è che molta clientela internazionale – e molta ristorazione, che si adegua – è rimasta all’idea di Vacanze Romane o della commedia all’italiana. Non a caso, fatte poche eccezioni, è difficile trovare delle vere trattorie romane, mentre imperversano postacci di folklore. A Parigi i punti più belli della città corrispondono anche a grandissimi ristoranti, che so Place des Vosges e l’Ambrosie, o Place de la Madeleine e Lucas Carton, mentre se provate a fare lo stesso discorso nei punti strategici della città cadono troppo spesso le braccia. Per fortuna, nel Lazio ci sono gli Antonello Colonna e i Salvatore Tassa (Colline Ciociare), o quel “matto” (in senso buono) del Tordo Matto di Zagarolo, oppure – in città – indirizzi come Agata e Romeo, il Convivio, l’Altro Mastai, il Pagliaccio, ma anche la Matricianella o enotavole straordinarie come Bleve e Roscioli che tirano su la media. E questo senza citare un cuoco e un locale di livello mondiale come Heinz Beck e la Pergola, che fanno onore alla città e alla cucina italiana moderna.

Quali sono per te nel panorama europeo i paesi dove la cucina sta raggiungendo risultati interessanti?
Senza dubbio la Francia e la Spagna. Più Francia che Spagna, perché la Spagna – a fronte di tante eccellenze – ha anche degli spaventosi buchi neri, mentre in Francia il tessuto delle varie regioni gastronomiche è molto più compatto.

Gustare il cibo e raccontare il cibo: quale il piacere maggiore?
Gustarlo raccontandolo a tavola con gli amici, o meglio ancora con la persona che amo. Scrivere di cibo è comunque molto importante, perché non si tratta tanto di dire andate lì, o non andate là, ma di provare a fare una sorta di politica della buona tavola. E’ una grande responsabilità, che non prescinde dal rispetto di chi mette tanti investimenti e lavoro nel mestiere di cuocere.

Qual è il limite secondo te tra un virtuoso assemblaggio e una vera e propria cucina?
La cultura dello chef. Se lo chef cerca di raccontare qualcosa o di trasmettere emozioni con un piatto ed ha una cultura solida (vale a dire, conosce la tradizione, ha vere basi tecniche, ha girato e provato tante tavole di colleghi) si è tendenzialmente di fronte a “vera cucina”. Se invece lo chef vuole stupire il suo pubblico e si diverte a “vissaneggiare” senza il genio di Gianfranco Vissani, mettendo insieme caffè burrata ricci di mare e fegato di maiale nella rete, siamo di fronte a un povero illusionista da strapazzo.

Che cosa condizionerebbe negativamente il tuo parere mentre analizzi un ristorante?
Tante cose. Servizio disattento (ma anche quello invadente non è che sia meglio); rumore (compresa la musica petulante); odori dalla cucina (quelli che in inverno ti condiscono un cappotto, e i vestiti, tanto per intenderci); igiene precaria (esposizioni sospettabili di antipasti, stoviglie, bicchieri, bagni); dettagli pretenziosi non confermati nella sostanza (ad esempio la scelta di extravergini di varie regioni, che oggi fa tanto trendy, ma scaduti); ricarichi irritanti nella carta dei vini; tempi troppo lunghi (la cucina non può essere un’opera wagneriana).

Tre qualità essenziali per diventare un “top-ristorante”.
Emozionare con la cucina (cioè avere un cuoco che abbia qualcosa da dire) lavorare sui dettagli di contorno, mantenendo però la misura; avere una sala non inferiore alla cucina. La quarta qualità è una cantina pensata.

In un articolo sulla “Gola” del 1983 Folco Portinari definiva la “guida” come figlia legittima della cultura industriale, il più tipico strumento della cultura di massa nella civiltà capitalistica… A distanza di 24 anni è ancora così o possiamo ridefinire il ruolo delle guide enogastronomiche?
In realtà il discorso andrebbe rovesciato. Nella civiltà capitalistica e post-capitalistica in principio è il ristorante (rivoluzionario e borghese, rispetto a quel mangiare a casa che accomuna ricchi e proletari), poi vengono le guide. Oggi le guide sono uno strumento “politico” importante. Grazie al lavoro critico sono state portate avanti tante battaglie, dalla stagionalità dei prodotti alla qualità-tracciabilità delle materie prime, dalla difesa del territorio e del suo patrimonio enogastronomico alla valorizzazione di una cucina moderna, ma non per questo staccata dal concetto di buono.

L’offensiva mass-mediatica verso il pianeta cucina ha fatto sì che oggi più o meno chiunque si interessi o faccia affari con un argomento che fino a ieri era esclusivo appannaggio di gourmet ed addetti ai lavori…Cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro secondo te?
Succede col cinema, col calcio, con la musica, perché quindi non dovremmo avere un accresciuto numero di sedicenti esperti anche in cucina? Il fenomeno, anche se produce qualche effetto paradossale e molto kitsch non mi preoccupa. Anzi, penso che più aumentano la cultura generale e le competenze gastronomiche, più i ristoratori sono costretti a tenere il passo della domanda. Quando cresce la qualità della committenza cresce anche la cucina che ne interpreta il bisogno di buono. Sono ottimista. Anche perché la gente, così come impara a riconoscere i bravi cuochi dai cattivi, impara presto a distinguere un critico gastronomico che abbia qualcosa da dire da un guru alle vongole.

(pubblicato su Aroma di maggio/giugno 2007)