Salvaguardano il territorio, tutelano le produzioni tradizionali, proteggono dall’omologazione dei sapori: sono i presidi Slow Food italiani. 193 associazioni di oltre 1.300 piccoli produttori che rappresentano un esempio concreto di un nuovo modello di agricoltura, basata sulla qualità, il recupero dei saperi, il rispetto delle stagioni ed il benessere animale. La loro presenza rafforza le economie locali e favorisce la costituzione di un’alleanza stretta tra chi produce e chi consuma. Prodotti genuini e sostenibili, etichettati e garantiti dal contrassegno “Presidio Slow Food”, che ne identifica la sottoscrizione ad un disciplinare di produzione unico e ufficiale. Nel Lazio finora ne sono stati istituiti sei: conosciamoli meglio.

Anguilla dei laghi della Tuscia

> La pesca dell’anguilla nei laghi di Bolsena e Bracciano, a nord del Lazio, è una pratica tradizionale che vanta secoli di storia e trova la sua più celebre testimonianza addirittura nella Divina Commedia, dove il pesce è citato come la pietanza preferita di Papa Martino IV, passato alla storia più per i peccati di gola che non per le sue capacità di Pontefice. “… e quella faccia di là da lui più che l’altre trapunta ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: dal Torso fu e purga per digiuno l’anguille di Bolsena e la vernaccia” (Purgatorio, XIV, 19-24).

I pescatori si avvalgono ancora di tecniche completamente tradizionali, utilizzando un tipo di imbarcazione di origine etrusca, un tempo costruita con legno di cerro e olivo, lunga circa 6 metri e caratterizzata dal tipico scafo piatto, ampio e di forma triangolare. La pesca, che va da settembre a dicembre, periodo in cui le anguille emergono dai fondali e nuotano in superficie per andare a riprodursi in mare, avviene attraverso il metodo altamente selettivo degli altavelli, grandi nasse allungate, che catturano solo le anguille mature, le argentine, perché caratterizzate dalla livrea bianca.

Le anguille imprigionate vengono allora recuperate e distribuite sui mercati locali oppure trasformate dai pescatori secondo la lavorazione artigianale: una volta fritti, i tranci di pesce vengono messi a marinare nell’aceto di vino bianco aromatizzato con spezie tipo aglio, salvia, rosmarino e peperoncino.

Compito del Presidio, che coinvolge circa una quarantina di soci “anguillari” dei laghi di Bolsena e Bracciano, è proprio valorizzare questo prodotto tradizionale, abituando il mercato al consumo del pesce marinato durante il periodo di fermo pesca e tutelando così il ciclo vitale dell’animale; inoltre, vuole garantire la giusta remunerazione ai pescatori per il prodotto fresco, spesso non adeguatamente ripagato perché venduto sul mercato locale insieme a quello proveniente da altri paesi del Mediterrano o dell’Europa del Nord.

Antica lenticchia di Onano

> A Onano, in provincia di Viterbo, le lenticchie si coltivano da secoli: a loro è stato dedicato persino uno Statuto del 1561 tratto da “Ordini, statuti, leggi municipali della comunità e popolo di Onano” che prescriveva sanzioni per chi fosse sorpreso a danneggiare o a rubare leguminose, e ancora altre tracce documentarie che ne attestavano la vendita e il consumo alla corte papale. Il primo riconoscimento estero gli viene all’inizio del Novecento, quando una ditta onaniese, la “Alfonsi Alfonso”, le presentò in varie esposizioni internazionali, decretandone un successo mondiale. Eppure alla fine degli anni ‘60 queste pregiate lenticchie erano quasi scomparse per colpa di concimi chimici azotati e per l’avvento di colture più redditizie e di più sicuro raccolto, come la patata.

lenticchie

Oggi l’antica varietà di lenticchia di Onano è coltivata negli orti familiari e un produttore biologico sta cercando di riportare sul mercato la varietà più antica. L’obiettivo del Presidio è incrementare la coltivazione della lenticchia a seme grande, data la disponibilità di terreni potenzialmente vocati (i prediletti sono quelli di origine vulcanica) ma attualmente dedicati ad altre colture.

Di colore marrone chiaro con sfumature che vanno dal piombo scuro al cinereo rosato, al verdastro, marmorizzata in superficie, la lenticchia “dei Papi” è caratterizzata da una buccia quasi inesistente e dalla pasta vellutata, fine e cremosa, con aromi che vanno dal fieno alla camomilla. È ottima nelle minestre o nelle zuppe, come semplice contorno con un soffritto di guanciale, aglio, carota, sedano e un po’ di pomodoro, oppure in umido nei piatti a base di selvaggina, in particolare con la starna.

Tellina del litorale romano

> È il bivalve tipico del sabbioso litorale romano che va da Passoscuro a Capo d’Anzio, in cui è compresa la Riserva Naturale del Litorale Romano, un tratto di costa ancora ricco di biodiversità e vegetazione costiera. La pesca della tellina è da sempre legata alla presenza di comunità di pescatori che si dedicano alla pesca costiera utilizzando le tradizionali rastrelliere, con cui dragano dolcemente il fondale sabbioso.
Compito del Presidio, che riunisce una cinquantina di “tuninolari” (da “tuniola”, nome dialettale della tellina) detti anche “tellinari”, è la realizzazione di un disciplinare che tuteli questo tipo di pesca antica e sostenibile e che protegga questo tratto di costa dall’inquinamento e dall’erosione, preservando l’alta qualità delle acque che ancora lo caratterizza. Infatti, sebbene la tellina (Donax trunculus L.) si trovi comunemente su tutte le coste italiane con fondale sabbioso, in questa zona la pesca è sempre stata abbondante e rinomata fin dai tempi dei Romani, grazie alla qualità e alla finezza della sabbia.
Un documento del ‘500 conferma l’importanza strategica di questo litorale parlando di una cessione dei terreni destinati a tale attività: “il 18 di aprile del 1595 Andrea Cesi vendette a favore del cardinale Girolamo di Ciriaco e di Asdrubale fratelli Mattei, la peschiera delle telline esistente sulla spiaggia del mare del casale di Corteccia e Cesolina o Villa, per scudi 2.000”, mentre la storia recente racconta della vita nomade delle comunità di pescatori che da Minturno, nei pressi di Latina, si spostavano stagionalmente per pescare lungo questo tratto di costa, dove sfociano il Tevere e l’Arrone.

Solo alla fine degli anni ’50 i pescatori si stanziarono definitivamente in piccoli villaggi ancora presenti in alcune zone del litorale ed in particolare a Fregene e a Ostia, dove l’attività è molto viva e si pratica l’annuale sagra della tellina. Piccola e rara, la peculiarità della tellina è il gusto dolce e delicato, imparagonabile a quello degli altri molluschi, che deve essere esaltato da un condimento leggero che ne rispetti le delicate qualità organolettiche: preparazioni ideali sono infatti la tipica bruschetta e gli spaghetti.

Marzolina

> Formaggio tradizionale a base di latte di capra, deve il suo nome al periodo di produzione che, per il fresco, va da marzo a maggio, ovvero il primo periodo di lattazione della capra. Storicamente prodotta sulle pendici dei monti Ausoni, in particolare ad Esperia, detentrice della tradizione, la Marzolina ha recentemente trovato nuovi interpreti soprattutto in Val di Comino, complice l’intervento del Presidio Slow Food nell’incentivare altri produttori a recuperare questa tradizione.

Oggi sono coinvolti nel progetto anche due giovani che utilizzano il latte di capre prevalentemente di razza Grigia Ciociara, Camosciata e Bianca Monticellana, alimentate, come da disciplinare, allo stato brado per tutto il periodo favorevole. Il formaggio si ricava dal latte di due mungiture coagulato con caglio di capretto. Dopo la rottura della cagliata, la pasta è messa a sgrondare nelle formelle e quindi pressata a mano e salata a secco. La Marzolina si può consumare sia fresca, semplicemente stagionata per qualche giorno su graticci di legno in ambiente ventilato, sia stagionata, lasciandola maturare per qualche mese in damigiane di vetro colmate con olio di oliva.

Il formaggio presenta forma cilindrica allungata oppure tronco-conica, non ha crosta, ma una buccia dura e asciutta; la pasta è compatta, scagliosa e leggermente occhiata, di colore bianco latte, avorio nel caso di stagionatura sott’olio. Al naso si caratterizza per il forte odore caratteristico dei formaggi caprini ed in bocca presenta gusto abbastanza dolce, ricco e untuoso, con un finale gradevolmente piccante, soprattutto per lo stagionato.

Susianella di Viterbo

> È un insaccato tradizionale tipico della città di Viterbo, la cui produzione era storicamente legata ai soli mesi invernali, da novembre a marzo. Pur essendo il salume tradizionale del viterbese, oggi è molto difficile reperirlo, perché prodotto da un unico norcino che non ne ha mai abbandonato la lavorazione, salvaguardandola da una inevitabile scomparsa.
Il Presidio nasce proprio per preservare la piccola produzione attuale di Susianella e per cercare di coinvolgere altri norcini nel rispettare le caratteristiche peculiari della ricetta tradizionale, risalente addirittura alla civiltà etrusca, tra l’XI e il XV secolo, quando si diffuse la lavorazione delle frattaglie. La susianella è, infatti, il prodotto della trasformazione di cuore, fegato, pancreas, pancetta, guanciale e altre rifilature del suino adulto, le cui carni vengono macinate grossolanamente, condite con sale, pepe, peperoncino, finocchio selvatico e altre spezie e poi insaccate nel budello naturale di suino, legato a mano. La forma finale classica è a ferro di cavallo o a ciambella, di dimensioni tra i 30 e i 50 cm di lunghezza e peso che oscilla tra i 300 e i 500 grammi secondo la stagionatura, che si protrae da un minimo di 20 giorni fino ai sei mesi.
La fetta ha un colore che va dal rosa cupo al marrone e presenta sentori intensi tipici del fegato e del finocchietto selvatico, con un’evoluzione verso note di cioccolato e sottobosco. Il gusto è deciso e lievemente piccante.

Caciofiore della Campagna Romana

> Il caciofiore è un formaggio ovino molto antico, la cui produzione è già dettagliatamente descritta da Lucio Giunio Moderato Columella, a cui è stato appunto legato il nome del prodotto. Nel suo De Rustica, risalente al 50 d.C. lo scrittore romano indicava come preparare correttamente questo particolare formaggio, specificando che “Conviene coagulare il latte con caglio di agnello o di capretto, quantunque si possa anche rapprendere con il fiore del cardo silvestre o coi semi di cartamo o col latte di fico. In ogni modo il cacio migliore è quello che è stato fatto col minimo possibile di medicamento”.

È proprio avvalendosi delle indicazioni presenti nell’antico trattato sulla campagna romana, che la produzione del Caciofiore è stata recentemente riscoperta da alcuni caseifici della provincia di Roma, che hanno ripreso a produrlo, tutelati dal Presidio che intende sostenere questo progetto di recupero. Prodotto da novembre a giugno, salvo deroghe per chi pratichi la transumanza in alpeggio, il formaggio è fatto con latte di pecora proveniente dalle razze Sarda e Comisana, con una presenza minima di meticce, Massesi e Sopravvissane, lasciate pascolare libere per buona parte dell’anno.

Alberto Peroli1
La sua particolarità è nell’utilizzo non di caglio animale, come nei formaggi tradizionali, ma di caglio vegetale, ottenuto dal fiore di carciofo o di cardo selvatico (Cynara cardunculus o Cynara scolimus) secondo una procedura piuttosto rigorosa: i fiori devono essere raccolti in estate in giornate soleggiate e asciutte, quando sono completamente fioriti e hanno una colorazione viola intenso, e dopo 15-20 giorni di essiccazione, gli stami vengono messi a macerare in acqua per una giornata intera. Per ottenere il caglio, le proporzioni prevedono che 60-80 grammi immersi in 800 ml di acqua sono sufficienti per far coagulare un quintale di latte, che inizierà a cagliare dopo circa 60-80 minuti dall’aggiunta dell’infuso. La cagliata viene allora rotta in cubetti di circa cinque centimetri per lato, fatta riposare per un quarto d’ora, e di nuovo frantumata in piccoli pezzi con un mestolo forato.
I frammenti ottenuti vengono adagiati in fuscelle di forma quadrata e fatti spurgare per un giorno; la forma viene poi salata e messa a stagionare per un periodo variabile tra i 30 e gli 80 giorni, rigirandola quotidianamente per evitare la formazione di muffe.

marzIl prodotto finale è un formaggio di forma quadrata di circa 10 centimetri per lato, con uno scalzo convesso di circa 5 cm e un peso variabile tra 0,5 e 1 kg. All’esterno presenta una crosta grinzosa e giallognola, mentre l’interno è morbido e compatto, con lievi occhiature e un cuore molto cremoso. Al naso presenta un profumo profondo e ricco con sentori di carciofo e verdure di campo, mentre in bocca ha gusto intenso, non salato, lievemente amaro, avvolgente e con una nota grassa equilibrata.

www.slowfood.it

di Flavia Rendina
(pubblicato su Aroma di marzo/aprile 2011)