In occasione della scomparsa del grande Maestro, Aroma ripropone l’intervista esclusiva realizzata tredici anni fa con il Padre della Cucina Italiana.

Gualtiero Marchesi, lei è stato il primo chef italiano a conquistare le gloriose tre stelle Michelin. Ci racconta questa affascinante esperienza dall’inizio?

Io sono figlio di osti, i miei genitori gestivano a Milano l’Albergo del Mercato quindi si può dire che la cucina e il gusto dell’ospitalità facciano parte del mio DNA. Dopo la scuola alberghiera in Svizzera c’è stato il mio lungo soggiorno in Francia, determinante per la mia formazione, fino all’apertura del ristorante in Via Bonvesin de La Riva che dopo 8 anni riuscì a conquistare le tre stelle, traguardo mai tagliato da nessun chef italiano prima di allora. Queste le tappe iniziali di un percorso che mi ha portato ad aprire il ristorante ad Erbusco e più recentemente a rilevare la storica Hostaria dell’Orso a Roma.

C’è stato agli esordi un maestro in particolare la cui lezione è stata fondamentale per lei?

Oltre a Troisgros, maestro per me importantissimo, c’è stato il cugino di mio padre che mi ha trasmesso la passione e la dedizione per il lavoro. Lui è la principale figura di riferimento, quella di cui ancora oggi custodisco la lezione più preziosa.

Lei è considerato il pioniere della Nouvelle Cuisine, una parola di cui è stato spesso travisato il significato, diventato sinonimo di porzioni minime ed incosistenza dei piatti. Concetti apparentemente lontani dalla realtà della cucina italiana, fondata sulla sostanza ed equilibrio dei sapori. Cosa ne pensa?

Il merito incontestabile della Nouvelle Cuisine è stato quello di aver concesso più spazio al cuoco, lasciato libero di interpretare la tradizione secondo la propria sensibilità. Non più semplice esecutore ma garante della qualità dei suoi piatti che detto senza enfasi o retorica somigliano sempre di più a vere e proprie creazioni d’arte. Nella sua accezione autentica Nouvelle Cuisine vuol dire soprattutto leggerezza, perfezione dei tempi di cottura, freschezza degli ingredienti ed effetto cromatico dei piatti, tutti attributi fondanti della cucina italiana, con i quali mi trovo completamente d’accordo.

Cosa pensa della critica gastronomica, è sempre in grado di garantire una completa serenità di giudizio?

Spesso si avverte la mancanza di un confronto dialettico tra il critico e lo chef e questa distanza oltre a generare incomprensioni impedisce di fatto il libero scambio di opinioni che è indispensabile alla crescita. Se in poche parole il giornalista dice che il piatto non gli piace o addirittura che non è buono, dovrebbe per obbligo di cronaca dire almeno perchè e fornire delle spiegazioni, anziché limitarsi ad un giudizio negativo che spesso, ma non sempre, tradisce una certa superficialità o impreparazione di fondo. Il rapporto con il pubblico per fortuna è invece più immediato perchè il cliente ricerca il buono e la soddisfazione del palato, e le ragioni di uno chef che fa avanguardia o le disquisizioni degli addetti ai lavori giustamente poco lo interessano.

Tecnica francese, qualità giapponese, gusto italiano. E’ questo il trittico che suggella la felicità del palato?

I francesi, insuperabili sauciers e professionisti seri si sono persi  nell’uso eccessivo delle salse che alla lunga stancano il palato e impediscono di cogliere le diverse sfumature dei sapori. La cucina giapponese mi colpisce per l’essenzialità, il culto della materia prima e la straordinaria capacità di creare contrasti con gradi di cottura diversi che stimolano il gusto. La cucina Kaiseki in questo senso è esemplare. Quello italiano è un gusto istintivo ed immediato che per esprimersi ai massimi livelli deve presupporre una perfetta conoscenza della materia prima e della tradizione dalla quale si può anche deviare a condizione che ci sia una solida cultura alla base.

Cosa pensa della globalizzazione in cucina? Non c’è il rischio che la fusion generi un po’ di confusion?

Ben venga la “confusione” e gli influssi esotici quando questi si traducono in una fresca ventata di novità in grado di eludere la monotonia e tracciare nuove strade in cucina. I piatti delle altre culture, sia chiaro, vanno interpretati e non copiati, magari in improbabili versioni. Resta il fatto che il mestiere del cuoco è per definizione creativo per cui i nuovi piatti rispondono all’esigenza di una cucina sempre vitale e dinamica.

Ci suggerisca qualche piatto che le piace particolarmente, uno di quelli capaci di riaggiustare una giornata storta.

Senza dubbio i miei 4 piatti-bandiera, ai quali mi sento particolarmente affezionato, sono il risotto oro e zafferano, gli spaghetti al caviale, il raviolo aperto e la seppia al nero, ossia le mie ricette storiche. Tra i piatti a me più cari ci sono senza dubbio due ricette della memoria che il cugino di mio padre preparava a regola d’arte e di cui ancora adesso mi sembra di avvertire il profumo: la trippa in brodo con i fagioli bianchi di Spagna ed il suo inarrivabile brasato.

Lei è approdato sulle rive del Tevere, alla mitica Hostaria dell’Orso riaperta al pubblico delle grandi occasioni. Cosa pensa della cucina romana e come crede sia possibile coniugare la sua connotazione fortemente popolaresca con il senso della modernità? Quali sono i piatti forti della carta all’Hostaria dell’Orso?

Non conosco tutti i segreti della cucina romana, di cui comunque apprezzo la semplicità quando le preparazioni non sono troppo sapide o eccessivamente “robuste”. Preferibile in questo caso modernizzare le ricette della tradizione depurandole dai grassi per renderle adatte a tutti i palati, compresi quelli più delicati. Alla mia Hostaria dell’Orso propongo ad esempio una versione speciale di rigatoni all’amatriciana, rivisitata in chiave più leggera, e tutta giocata sul contrasto tra gli ingredienti come il guanciale croccante e la pasta.

Sopravvive a Roma l’osteria come realtà conviviale e momento di piacere non solo gastronomico. Per lei le osterie sono solo un’attrazione turistica o esprimono al contrario lo spirito della città, naturalmente improntato alla bonomia e alla socialità, sopratutto intorno alla tavola?

L’osteria autentica che resiste strenuamente all’impatto con la modernità è un patrimonio culturale della città e punto di aggregazione sociale. Ricordo nella Milano dei Navigli di una volta certi localini dove si andava per stare insieme e godersi in compagnia  una buona cucina casalinga. Infine la domanda di rito: se non avesse scelto di fare lo chef, Gualtiero Marchesi sarebbe stato…? Sicuramente un musicista, passione ereditata da mio padre: mia moglie è pianista, le mie due figlie suonano rispettivamente l’arpa e il violino, ed ho ben cinque nipoti che promettono nella musica. Che altro avrei potuto fare? 

Seppia al nero
Ingredienti per 4 persone: 4 seppie freschissime da 150 gr. l’una
1 dl di vino bianco secco, 20 rametti di cerfoglio, 10 gr. di burro, pepe bianco, sale.
Procedimento
– Mondare le seppie conservandone le vescichette dell’inchiostro.
– Riunire in una piccola casseruola il vino bianco e un litro d’acqua; salare e portare a ebollizione.
– Unirvi i tentacoli, il cappuccio delle seppie e cuocere a calore moderato per 20 minuti. Togliere dal fuoco. In una piccola casseruola versare l’inchiostro, diluirlo con altrettanta acqua, scaldare a fuoco moderato e, senza portare a ebollizione, aggiungere il burro a fiocchetti incorporandolo con una frusta, quindi salare e pepare.
– Coprire con la salsa nera il fondo dei piatti, adagiarvi sopra le seppie con la parte concava rivolta verso l’alto, ricomporle unendovi i tentacoli, quindi guarnire con il cerfoglio.
Vino consigliato: Sylvaner dell’Alto Adige