Nella sua cucina convivono i ricordi dei sapori della Sicilia quando da bambino ad Aci Trezza sentiva per la prima volta il gusto del polpo verace, dei ricci e delle cozze. Oggi gli abbinamenti più attuali e innovativi quali pesce-formaggio si esaltano in un piatto ormai classico come gli spaghetti con scampi e pecorino. Lui è Massimo Riccioli, tra i migliori chef di Roma. Tutti i giorni serve solo pesce fresco preparato con stile, fantasia e sapienza. Con i condimenti migliori e senza cedere alle mode. Il suo ristorante è La Rosetta a due passi dal Pantheon, tempio dell’alta cucina di pesce.

C’era una volta la Rosetta una trattoria di mare fondata da un fotografo (tuo padre Carmelo insieme a tua mamma Romana) destinata a diventare uno dei pilastri della cucina di pesce a Roma e in Italia. Come è iniziata questa bella storia umana e professionale?

Con una scommessa. Mio padre, siciliano doc e fotografo di boxe, dopo gli incontri amava invitare il suo entourage a casa e deliziare gli amici con i suoi proverbiali manicaretti a base di pesce freschissimo. Mia mamma vista l’ora lo spinse a tentare l’avventura e a rilevare quella che era solo una osteria per dare sfogo alle sue ambizioni gastro-conviviali. Andava ogni giorno a fare la spesa a Fiumicino e ritornava con un ricco carniere di prede ancora guizzanti. L’idea del tutto pesce per i tempi era una novità assoluta, i romani erano abituati al calendario canonico del martedì e venerdì, ma il successo fu quasi immediato, anche se qualche resistenza al tema unico era inevitabile. Parliamo del lontano 1966, e nel 2016 abbiamo festeggiato con orgoglio i nostri primi cinquant’anni.

Quando hai scoperto la tua passione per la cucina? Oltre tuo padre, c’è stata per te all’inizio una figura guida la cui lezione è stata determinante?

Sono nato in una casa dove mangiare il pesce era un rito quasi sacro. Ricordo le gite con mio padre ad Aci Trezza ed il gusto del polpo verace, dei ricci, del mauro, un’alga croccante condita da qualche goccia di limone, delle cozze che ci fermavamo a mangiare per strada. Avevo già da allora il sapore del mare ben limpido e definito in mente. A Santa Marinella, dove abitavamo durante i mesi estivi, aspettavamo le barche per vedere il pescato e scegliere il menu della sera. La mia passione nasce da una memoria direi proustiana, ma non nego l’influenza di Gualtiero Marchesi di cui divoravo gli editoriali dedicati al cibo e alla cucina de “L’Europeo”.

Tu tieni molto a ricordare che La Rosetta è stato il primo ristorante di Roma a dedicarsi completamente al mare. Cosa pensi dell’attuale moda dei tutto pesce?

La Rosetta è stato il primo ristorante a rompere gli schemi e a proporre al palato molto conservatore dei romani la fragranza del pesce, nel 1966. Molti ristoranti del genere risultano oggi un po’ improvvisati o anonimi perchè dimenticano che il pesce, pur essendo una materia prima assai versatile, richiede sensibilità e grandi rispetto e conoscenza del prodotto, delle cotture e degli abbinamenti ottimali. I più bravi hanno saputo mutuare da altri le idee migliori, ma posso dire senza paura di smentite che La Rosetta è un ristorante animato da una costante ricerca che ogni giorno si rinnova nel segno della mediterraneità e della perfezione tecnica.

Quali sono i segreti per fare una grande cucina di mare? Qualcuno ha obiettato che oggi, in nome del crudo e della purezza, sembra più importante il pescivendolo dello chef, quest’ultimo escluso da ogni manipolazione che pregiudichi l’integrità della materia prima. Dal mare al piatto. In questo processo lo chef dove trova la propria collocazione?

Solo lo chef, e non il pescivendolo, sceglie la materia prima, la tratta, la pulisce e la conserva nel rispetto della qualità organolettica del prodotto. Negli anni ho imparato che il pesce meno lo condisci e meglio è, tuttavia alcuni dettagli sono fondamentali. L’uso calibrato dell’olio dell’oliva, del limone ed in particolare del sale – come quello straordinario di Guerand in Bretagna che sprigiona tutti gli umori del mare – contribuisce ad esaltare i sapori e profumi iodici. Piccoli interventi ma decisivi per portare a tavola la quintessenza del piatto, senza dimenticare la fantasia per gli abbinamenti giusti con verdure e legumi, ed esaltare così al meglio il prodotto.

Come nasce un nuovo piatto a La Rosetta?

Nasce dai viaggi e dalle esperienze che ti permettono di conoscere nuovi elementi capaci di ispirare inedite creazioni. Nasce anche dal desiderio o dall’appetito del momento, da un capriccio, dalla voglia inesausta di sperimentare e metterti in gioco. Il contributo delle culture esotiche è certamente prezioso, a patto che non si pregiudichino l’eleganza e l’equilibrio dei sapori in nome della fusion a tutti i costi. Un buon piatto è il risultato di una complessità di sollecitazioni, consistenza, profumi, sapori e presentazione a tavola. Chi viene a La Rosetta desidera fare innanzitutto un’esperienza sensoriale, soprattutto nei sapori decisi ma affinati.

Penso ad alcune ricette rivoluzionarie da te brevettate e poi copiate da tanti come l’astice al formaggio, la parmigiana di spigola o gli spaghetti con scampi e pecorino, un piatto che è diventato un classico. La creatività può interpretare al meglio il tema del pesce o rappresenta un rischio concreto choccando il palato con accostamenti troppo insoliti e arditi?

La creatività deve avere dei confini certi entro i quali muoversi. Se l’esito della provocazione è buono vale la pena di sperimentare nuove combinazioni, ma l’ultima parola come sempre spetta a chi prova e poi giudica. Ti faccio un esempio: nel mio dentice allo zenzero il pesce è protagonista, e prevale sul retrogusto delle erbe e della spezia e non viceversa. E’ mia ferma convinzione inoltre che l’estro in cucina sia appannaggio di chi già possiede una sapienza gastronomica, frutto di anni di duro lavoro.

Parlando del tuo menù, che ami reinventare ogni giorno, quali sono i piatti fondamentali della tua carriera, le hit golose che non possono mancare nell’antologia gastronomica de La Rosetta?

Il nuovo piatto è quello che senz’altro mi piacerà di più. Tra quelli a cui mi sento più affezionato, annovero gli spaghetti con fiori di zucchina e pecorino, i risotti ed il tonno e i crudi in tutte le maniere. Mi sento un po’ come un musicista di jazz, ho imparato la tecnica strumentale ma sono le note che fanno la musica.

Il gusto per la sfida fanno di te un imprenditore dinamico e curioso dei trend internazionali. Una delle tue imprese più difficili e riuscite è stata quella di aprire un locale evoluto come il Riccioli Cafè, portando un po’ di New York e Londra a Roma. Poi hai lavorato in grandi alberghi a Londra e Roma. Hai in mente qualche nuovo progetto?

Tutte scommesse vinte, alle quali sono seguite altre imprese fortunate. Come quella di aprire un negozio di gastronomia di pesce (il Rosticcerì) dove acquistare il prodotto da portare via, pronto per essere cucinato a casa, magari in futuro una trattoria dove regnino la tradizione e la raffinatezza.

Se vuoi mangiare degnamente a Roma e dintorni quale è il tuo ristorante di fiducia? C’è una cucina etnica che ti stuzzica in modo particolare?

Augusto a Trastevere, ovvero l’essenza del ristorante nudo e crudo, senza fronzoli, si mangia quel che c’è in un ambiente a dir poco spartano. Il Convivio di Angelo Troiani, un vero talento dell’alta cucina e, per gli sfizi, il ritrovo gourmet della famiglia Roscioli. Per il pesce vado a colpo sicuro da Romolo al Porto, o alla Baia di Fregene. Per quanto riguarda il genere etno, mi diverte la cucina thai per il contrasto dolce/piccante e la tecnica raffinata, senza dimenticare ovviamente il rigore perfetto della cultura giapponese.

Un hobby o una passione che avresti voluto trasformare in lavoro se non avessi ceduto al richiamo dei fornelli.

Prima di fare il ristoratore ho lavorato come operatore cinematografico, l’arte che sento più affine alla cucina proprio per l’esigenza ineludibile di rapidità, precisione, perizia che il cinema impone senza mezzi termini. Per ottenere sempre un prodotto al vertice della qualità.

 

Calamaretti con pomodori appesi, cavolo nero toscano e ricotta infornata

 

Ingredienti per 4 persone

– 500 gr calamaretti (2/3 cm) puliti
– 200 gr pomodori appesi
– 100 gr ricotta infornata
– 500 gr cavolo nero toscano
– 1/2 bicchiere di vino bianco- – 2 cucchiai d’olio extra vergine d’oliva dal sapore deciso
– 2 spicchi d’aglio

Procedimento

In una padella di ferro, utile perché trasmette più calore, far rosolare due spicchi d’aglio col peperoncino. Quando l’aglio è ambrato spegnere il fuoco e versare i calamaretti privati degli occhi e della penna. Riaccendere il fuoco, far rosolare e aggiungere i pomodori appesi schiacciati, il prezzemolo e il basilico. Lasciare cuocere circa due minuti a fuoco vivo, aggiungere due presine di sale e tenere ancora un paio di minuti a fuoco vivo. Aggiungere il vino e dopo aver riportato a ebollizione abbassare il fuoco e far cucinare per altri cinque minuti. Aggiustare di sale e sporzionare sui piatti dove avrete disposto le foglie di cavolo nero precedentemente bollite in acqua salata per circa sei minuti. Aggiungere infine sopra i calamaretti la ricotta precedentemente infornata a 180° per quindici minuti, il tempo che assuma un colore dorato, tagliata a sfoglie.

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