I prodotti IGP del Lazio

IGP (indicazione geografica protetta): identifica un prodotto agroalimentare originario di un’area geografica, le cui qualità, reputazione o altre caratteristiche possano essere attribuite all’origine geografica, e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell’area geografica determinata.

Carciofo romanesco
Questo ortaggio rappresenta sicuramente l’anima della cucina romana, che si esprime nelle sue preparazioni alla giudia o alla romana, nel pinzimonio e nella frittura o con la coratella d’agnello, ma è soprattutto uno dei più antichi ortaggi certificati, presente addirittura in epoca etrusca, come testimoniano alcune pitture. Da allora la coltivazione del carciofo, il cui cuore è detto “mammola” dai romani, si è stabilizzata nelle zone costiere della maremma viterbese, alle quali è stata riconosciuta nel 2002 l’Indicazione Geografica Protetta, IGP. Le cultivar del carciofo romanesco sono Castellammare e Campagnano, con i relativi cloni, ma le zone più rinomate risultano senza dubbio Cerveteri e Sezze, dove si svolge l’annuale sagra, e Tarquinia; in quest’ultima, in particolare, viene prodotta una varietà autoctona dell’ortaggio, il cosiddetto “carciofo di Tarquinia”, che è un incrocio tra il romanesco e il carciofo di Provenza. Il carciofo romanesco è una pianta erbacea poliennale, provvista di rizoma sotterraneo dalle cui gemme si sviluppano fusti ramificati; presenta un colore verde cenerino, è sferico, compatto, con un caratteristico foro all’apice. Il carciofo detesta l’umidità, come pure le temperature inferiori ai 4°/5°, richiede un clima mite e predilige terreni profondi, ben drenati e neutri. Il prodotto è immesso sul mercato quando è ancora fresco, generalmente da febbraio a maggio, e può essere confezionato in particolari mazzi per renderlo più presentabile al consumatore.

Kiwi Latina
Il kiwi Latina IGP, prodotto in 24 comuni siti nelle due province di Latina e Roma, è l’unico che può fregiarsi del marchio europeo di qualità IGP, conferitogli nel 2004, che lo lega a questo particolare ambiente pedoclimatico, molto simile a quello della zona di sviluppo originaria. La pianta del kiwi è, infatti, originaria della Cina meridionale, dove era conosciuta più di settecento anni fa con il nome di Yang-tao. È solo negli anni ’20 che la pianta ha fatto la sua apparizione in Italia, diffondendosi sia nelle zone settentrionali che in quelle meridionali. Introdotta nella zona di Latina dal 1970, la produzione di kiwi si è sviluppata molto rapidamente, garantendo frutti di qualità e ben pezzati, grazie alle condizioni particolarmente favorevoli del terreno, che garantivano ottima esposizione solare e assenza di gelate improvvise. La denominazione protetta IGP fa riferimento esclusivamente ai frutti della specie botanica Actinidia deliziosa, della cultivar Hayward, che si presentano di forma cilindrica-ellissoidale, buccia di colore bruno chiaro con fondo verde chiaro, polpa verde smeraldo chiaro, con columella biancastra, morbida, circondata da una corona di piccoli e numerosi semi neri, di buon sapore e mediamente profumata. Il frutto maturo è caratterizzato dal sapore dolce-acidulo che gli viene conferito dalla qualità del terreno. La raccolta del frutto avviene dalla fine d’ottobre fino a giugno, e il prodotto deve essere commercializzato fresco, intero, senza peduncolo, sano, pulito e sodo. Il Kiwi Latina IGP va conservato in frigorifero e preferibilmente consumato entro pochi giorni dall’acquisto. Se tenuto in un sacchetto di plastica, può conservarsi anche per due settimane, purché non venga tenuto vicino ad altra frutta, giacché ne accelera il processo di maturazione.

Pane casareccio di Genzano IGP
Il Pane Casareccio di Genzano, IGP dal 1997, rappresenta un prodotto unico ed inimitabile, risultato di una serie di caratteri del territorio di produzione, quali l’origine vulcanica del terreno, la composizione dell’acqua, il clima temperato mediterraneo, oltre al legame con la secolare tradizione contadina presente. Sul territorio di Genzano, la cultura del pane si diffonde già a partire dal 1600, tant’è che si narra che il principe Cesarini Sforza, accanto al cui palazzo sorse il borgo, avrebbe addirittura portato in dono al Papa questo prodotto, che ne rimase estremamente colpito dal gusto e dal profumo. Nel 1800, a Genzano, il pane divenne addirittura protagonista dei moti di rivolta guidati dai fratelli Pace e Tempesta, contro il razionamento del grano per la panificazione. Tradizionalmente, il pane veniva preparato dalle donne del borgo nelle prime ore del mattino, che si riunivano nei forni pubblici, detti “soccie”, ad impastare e cuocere le pagnotte, dopo averle accuratamente marchiate con un segno di riconoscimento personale, per poterle distinguere dalle altre. Il paese veniva allora invaso dal profumo del pane sfornato e dall’aroma sprigionato dai legni di castagno con cui erano alimentati i forni. È solo a partire dagli anni ‘40 che questa tradizione è stata in parte cancellata dall’introduzione di impastatrici e forni elettrici che tuttavia, oltre ad aver alleviato le fatiche dei fornai, hanno permesso al Pane di Genzano di poter essere apprezzato anche tra gli abitanti di Roma, dove veniva trasportato di notte e venduto il giorno successivo nei panifici locali, fino a varcare i confini del Lazio. Il successo di questo pane è dovuto indubbiamente alle sue straordinarie doti di conservazione, che gli permettono di mantenere inalterati profumo e fragranza anche per sette giorni. Il segreto risiede nell’uso di un lievito acido e ricco di fermenti vivi, oltre ad altri ingredienti di marcata qualità, quali farina di tipo zero o doppio zero, sale alimentare, acqua, cruschello di grano senza aggiunta di prodotti chimici o biologici, e ad una cottura lenta e costante. Il prodotto finale è una pagnotta o filone tondo e lungo, di pezzatura non inferiore ai 500 gr, dal sapore sapido e cereale, con una mollica bianca e spugnosa con alveoli di media misura, ed una crosta scura dello spessore di 3 mm atta a mantenere l’umidità interna. Il pane ben si accompagna ai salumi laziali e alla porchetta di Ariccia, e può essere gustato l’ultima domenica di ottobre all’annuale sagra a Genzano di Roma.

In fase di riconoscimento del marchio IGP:

Abbacchio romano
“Abbacchio” è il termine romanesco che indica l’agnello giovane, lattante, macellato per la vendita, che conserva un ruolo fondamentale nella storia della cucina romana e laziale. Gli antichi romani, ai quali si può far risalire il termine dal latino baculum (bastone), perché gli agnelli venivano legati appunto “ad baculum”, perché non si perdessero, erano grandi estimatori della carne del giovane animale, che lo stesso Giovenale definisce: “il più tenero del gregge, vergine d’erba, più di latte ripieno che di sangue”. Dalla metà del ‘500, come risulta da una bolla di Sisto V dell’8 aprile 1589, il commercio delle bestie iniziò ad aver luogo all’interno del foro romano, dove si tenne regolarmente fino a quando non furono avviati gli scavi del Foro in epoca napoleonica. Il mercato, rinominato per l’appunto “Campo Vaccino”, era sottoposto alla giurisdizione del Governatore della dogana di Campo vaccino, il quale imponeva il pagamento di un dazio a tutti gli allevatori che vi si recavano per commercializzare pecore, bovini ed agnelli. La vendita ed il consumo di quest’ultimi in particolare, subiva solitamente una crescita considerevole soprattutto nel periodo compreso tra Pasqua e giugno, in cui si teneva la cosiddetta “agnellatura”, ovvero la macellazione dei capi da uno a sei mesi di età. Durante quel periodo, i pastori dell’agro romano vendevano i tagli più pregiati dell’animale, mentre tenevano per sé la parte meno nobile ma più grassa, la cosiddetta “pagliatella”, ovvero l’intestino dell’agnello, in cui si trovava ancora il latte materno, un alimento che ancora caratterizza la cucina povera romana. Dal 2003, quando è stata riconosciuta la protezione transitoria, è considerato Abbacchio Romano esclusivamente l’agnello “da latte”, maschio o femmina, nato ed allevato allo stato semibrado, di razza Sarda, Comisana, Sopravissana, Massese, Merinizzata Italiana e relativi incroci, rispondente ad un peso morto di massimo 8 kg. La carne di Abbacchio Romano, messa in commercio secondo differenti tagli (intero, mezzena, spalla e coscio, costolette, testa e coratella), deve presentarsi di colore rosa chiaro, dalla tessitura fine e dalla consistenza compatta, con poco grasso di copertura bianco e poche infiltrazioni interne, dal sapore delicato con aromi tipici di una carne giovane e fresca.

Sedano Bianco di Sperlonga
L’introduzione nel territorio di Fondi e Latina intorno agli anni ’60 ha rappresentato sin da subito una valida forma di utilizzazione dell’area dei “Pantani”, compresa fra il Lago di Sperlonga ed il mar Tirreno, caratterizzata da falda affiorante, che oggi costituisce l’ambito di elezione della coltura. La presenza della coltura nell’areale di produzione è comprovata, inoltre, da una ricca documentazione fiscale risalente ai primi anni ’60, fino ai giorni nostri, allorquando il “Sedano Bianco di Sperlonga”, dopo una prima fase di introduzione, trovò rapida valorizzazione commerciale e consumo sui mercati di Roma, che l’ha condotto negli ultimi due decenni ad un trend di crescita costante. Il Sedano Bianco di Sperlonga, in attesa dal 2005 del riconoscimento nella gazzetta ufficiale delle IGP, appartiene alla specie Apium graveolens L., ecotipo “Bianco di Sperlonga”, il cui seme viene prodotto direttamente in azienda da parte degli agricoltori mediante selezione fenotipica (ossia ottenimento del seme dalle piante migliori). La peculiarità intrinseca di questo ecotipo è il caratteristico colore chiaro, con coste bianche o biancastre, che può comunque essere enfatizzato con densità di semina più fitta. La pianta di sedano presenta inoltre taglia media, forma compatta, recante 10-15 foglie di colore verde chiaro, piccioli fogliari di colore bianco con leggera sfumatura verde chiaro, poco fibrosi, caratterizzati da costolature poco evidenti. Il Sedano Bianco di Sperlonga, premiato dall’Inran per le sue doti qualitative che lo rendono perfetto anche per le esportazioni, ha un sapore dolce e solo moderatamente aromatico, che lo rende particolarmente indicato ad essere consumato fresco, in pinzimonio o in accompagnamento al pesce.

Trota Reatina
Il territorio reatino è nel Lazio, quello che si è distinto da sempre, da un punto di vista idrografico, per la grande quantità di acque presenti sotto forma di sorgenti, fiumi, torrenti, laghi. Questo aspetto ha segnato profondamente nel corso dei secoli le sue caratteristiche storiche, geografiche ed economiche, facendo sì che la pesca e l’acquacoltura diventassero un’attività molto diffusa ed indispensabile in tutto il territorio. Frequenti ritrovamenti archeologici e documentali nella zona di Cittaducale, testimonierebbero, inoltre, la presenza molto accreditata dell’esistenza di impianti pescosi destinati in particolare alla troticoltura nelle sorgenti di Peschiera, S. Susanna e delle Capore. Le specie di trota per cui è dal 2006 in fase di riconoscimento il marchio IGP sono l’Iridea, sia a carne bianca che salmonata, e la Trota Fario. Attualmente l’allevamento della Trota Reatina avviene in numerosi comuni del territorio reatino, in aree poste ad una distanza di 10 km dalla sorgente e che presentano temperatura costante, compresa tra 8°C e 13°C, ossigeno disciolto 8-9 ppm e pH 7.0-8.0. Tali parametri sono importanti al fine di garantire il rispetto di tempi di crescita degli animali e mantenere elevate le caratteristiche di qualità e tipicità. La Trota Iridea deve avere corpo fusiforme, allungato, leggermente compresso, con peduncolo caudale robusto e alto. La livrea deve essere blu-metallica, blu-verdastra dorsalmente, con riflessi argentei sui fianchi e biancastra sul ventre, intensa e brillante. Deve essere presente una fascia più o meno alta, estesa dall’opercolo al peduncolo caudale, di tonalità rosata o purpurea. La Trota Fario deve avere un corpo slanciato e leggermente compresso, ricoperto da piccole scaglie cicloidi. Il dorso si deve presentare brunastro, cosparso di piccoli e rari punti neri e rossi che si estendono sui fianchi, di colore giallastro, mentre nella regione opercolare deve presentare esclusivamente macchie nere. Le pinne dorsali e la caudale sono di colore grigio più o meno scuro; quelle pari tendono al giallastro. Al consumo la pezzatura minima della trota è di 300 gr, con età compresa tra i 12 e i 26 mesi. Il tessuto muscolare deve avere una tessitura uniforme, compatta, elastica di colore bianco tipico o rosato nel caso di trota salmonata. Non sono ammesse né mollezze o flaccidità né presenza di colorazione anomala. L’occhio deve essere trasparente e brillante e le branchie di colore rosso vivo.

di Flavia Rendina
(pubblicato su Aroma di luglio/agosto 2009)