Secondo le statistiche, la densità di ristoranti a Manhattan è tale che, volendone cambiare uno al giorno, ce ne sarebbero a sufficienza per quarantasei anni. Etnici, internazionali, locali, vegetariani, steak houses e naturalmente, come è di rigore, il meglio del meglio che il mercato offre in ogni settore. Vivendo una città che non dorme mai, i newyorkesi dedicano molto tempo a pranzi e cene, affinando il loro palato con le prelibatezze dei grandi chef, che a loro volta usano la capitale del mondo come vetrina per le loro prodezze culinarie. Un micro universo cosmopolita in cui, insieme ad una raffinata cucina orientale e ad eccellenti esempi locali, spicca la maestria dei grandi chef francesi in invenzioni creative dove l’estetica è importante quanto il gusto.

Alain Ducasse ha scelto il dorato Hotel St. Regis come sede di un nuovo ristorante che rievoca la sua terra e le sue radici: “Adour racconta una storia. La storia delle mie origini, una regione nel Sudovest della Francia in cui scorre un fiume che si chiama Adour. È lì che da bambino ho sviluppato una passione per gli ingredienti autentici”. Foglie di prezzemolo e polpa rosata di pomodoro fresco adornano la pasta delle sue lasagne all’aragosta come decorazioni dipinte su un tessuto leggero. Tra i piatti che definiscono il menù, i ravioli all’aragosta sono gustosi e delicati e l’anatra con polenta cremosa è morbida come un foie gras. L’arredamento di Adour Alain Ducasse è coordinato per colore: il vino rosé dell’aperitivo ha la stessa sfumatura delle poltroncine di velluto, parte di un arredamento in cui la scelta cromatica è basata sulle tonalità borgogna e rosé per la sala centrale, chardonnay e champagne per il lungo tavolo che separa le due stanze private gemelle, nella stessa nuance di colore.

Tocchi stravaganti all’Hotel Four Seasons nell’Atélier de Joel Robouchon, dove i piatti sfilano sul bancone del bar come su una passerella. L’intero menù è una festa sensoriale che introduce a una cucina creativa, originale e gustosa. Reinterpretazioni di piatti classici, come burger formato mignon reso “délicieu!” dall’aggiunta di foie gras e un filetto di kobe beef di consistenza burrosa, abbinati a una creativa selezione di vini internazionali, non cessano di sorprendere fino all’ultimo, serviti da impeccabili camerieri in guanti bianchi che illustrano ogni portata con charme e piacevole sense of humor. Il carpaccio di langoustine è così elegante, anche visivamente, che sembra un medaglione da indossare, di gusto delicato esattamente come suggerisce il suo aspetto. Elaborazioni creative per il palato e per la vista, quelle di Joel Roubouchon, in un’ariosa sala con soffitti alti e grandi vetrate che creano un’atmosfera elegante e moderna.

Il ristorante cinese gourmet, che fino a qualche anno fa era un fenomeno isolato, oggi detta una tendenza in ascesa. Philippe Chow, star incontrastata dell’universo newyorkese, dopo aver lavorato per venticinque anni nelle prestigiose cucine di Mr. Chow, ha aperto l’eponimo Philippe, portando con sè l’autenticità dei famosi piatti di sua invenzione e schiere di fan. Surclassando i suoi predecessori, lo chef propone una cucina cinese sfiziosa e raffinata: i classici spiedini di pollo chicken satay con salsa alla panna, marinati in un puré di carote, il pollo macinato e i gamberi con verdure a dadini, serviti nella foglia di lattuga, la croccante orange beef fritta delicatamente e completata con salsa agrodolce, e una sublime anatra alla pechinese, la cui carne morbida e succosa è in armonioso contrasto con la pelle, croccante al punto giusto.

Recente apertura per Matsugen, in cui l’estroso Jean-Georges Vongerichten, pluridecorato da stelle Michelin, sostituisce al precedente 66 un ristorante specializzato in soba noodles, una specie particolare di spaghetti giapponesi integrali che vengono serviti con salse o nella zuppa ed erano in origine caratteristici dei fast food nelle stazioni di Tokyo. Se il passaggio dalla cucina cinese a quella giapponese va un po’ contro corrente rispetto alle mode più recenti lo chef, noto per le sue idee innovative, resta invece sulla cresta dell’onda concentrandosi sul soba, di cui si sente sempre più spesso parlare tra gli aficionados di cucine orientali. In società con “l’enfant terrible della cucina francese moderna”, i fratelli Matsushita sono coloro a cui si deve il passaggio del soba da pietanza povera ai più prestigiosi menù internazionali.

A Manhattan i ristoranti giapponesi non sono più un fenomeno di moda recente, entrati ormai nel quotidiano come l’hamburger, la pizza o il cibo cinese a domicilio. Anche se in molti casi cena giapponese è sinonimo di décor essenziale e spicy tuna rolls, Morimoto è un fuori classe sotto tutti gli aspetti. Nella selezione dello chef la tartare di toro, fatta con la parte più grassa e tenera del tonno, è soffice come crema ed esibita con l’arte di un dipinto. Un tableau di polpa rosata accompagnato da un piccolo contenitore con condimenti in sfumatura e decorato con un’orchidea viola, una creazione che, insieme alle ostriche fritte, l’anatra e altri piatti presenti nell’omakase, hanno garantito allo chef Masaharu Morimoto, in competizione con avversari eccellenti, il titolo di Iron Chef in Giappone e in America.

Mostro sacro locale, Thomas Keller nel suo Per Se, all’interno del Time Warner Center a Columbus Circle, detiene ancora il primato d’inaccessibilità nonostante a New York sia in buona compagnia di ristoranti riservati a una ristretta élite di personaggi famosi, attesi dai paparazzi sul retro di hot spots invariabilmente “fully booked” per il popolo. Le prenotazioni hanno ancora, a quattro anni dall’apertura, due mesi d’attesa e se si vuole assaggiare la sua acclamata e creativa cucina americana, non è possible ordinare à la carte, esiste solo un tasting menù di nove portate, vista su Central Park inclusa.
Cucine diverse, frutto della creatività dei migliori chef, artefici di delicati stimoli al gusto ma soprattutto una meticolosa cura personale del dettaglio: dal pane fatto in Francia, il cui impasto arriva in aereo “perché l’acqua lì ha un sapore diverso”, al pesce per il sushi importato da mercati esotici. Non perfezionisti quindi, ma autentici puristi, che meritano stelle non solo nelle classifiche Michelin e del New York Times ma anche sulle porte dei loro camerini.

(pubblicato su Aroma di settembre/ottobre 2008)