C’era una volta… l’osteria. Sembrerebbe l’inizio di una bella favola e, forse, lo è. Quello che oggi ci appare solo come il racconto di un passato fantastico è il ricordo reale di un luogo che ha segnato la storia dell’Italia e della romanità in particolare.

Che cos’era l’osteria? Il termine deriva da oste, dal latino hospes, hospitis, ovvero “colui che dà ospitalità”, poiché già all’epoca dei Romani ritroviamo esempi di osterie nei termopholium, dove si servivano vino e cibi caldi, un luogo la cui definizione si è evoluta nel tempo con “locanda dove si poteva mangiare e trovare alloggio”.

La storia e la letteratura italiana sono sature di riferimenti all’osteria come momento fondamentale d’incontro nella vita quotidiana, così come la piazza o la chiesa, perché l’osteria era, sì, il luogo dove ci si fermava per rifocillarsi e pernottare nel bel mezzo di un lungo viaggio, ma era, soprattutto, il posto dove gli uomini passavano un po’ di tempo in compagnia di amici e concittadini, scambiandosi racconti e opinioni, accompagnati da buon vino, buon cibo e, a volte, disponibili signore.

L’oste, che dominava sovrano questo via vai di gente d’ogni posizione sociale e reputazione, aveva di conseguenza fama di persona astuta, perché sapeva soddisfare indistintamente le necessità dei suoi avventori, conciliandole al meglio con il proprio tornaconto personale. Era sempre ben informato, grazie alle chiacchiere che gli giravano attorno, spesso sconsideratamente liberate da menti piuttosto annebbiate dai fumi dell’alcool, e sapeva sempre come trarre profitto delle occasioni che gli si presentavano. Non a caso la nostra lingua è piena di espressioni proverbiali che ne testimoniano l’astuzia: si pensi al detto “fare i conti senza l’oste” o alla similitudine “come chiedere all’oste se il vino è buono”, entrambi rivelatori della capacità dell’oste di far sempre i propri interessi.

Gallocanterà

Anche nella letteratura gli osti sono spesso presi di mira con proverbi ed epigrammi, come nella raccolta di detti toscani del Giusti, che afferma che “gli osti sono tutti ladri”, che “per l’oste sono tutti galantuomini purché paghino” o che “l’oste è il peggior nemico assai: che s’ami l’inimico, disse Cristo, che s’ami l’oste non lo disse mai”. Nei Promessi Sposi Renzo, dopo le esperienze negative capitategli alle tre osterie in cui aveva soggiornato durante il suo viaggio, non può fare a meno di gridare: “Maledetti gli osti, più ne conosco, peggio li trovo!”. Non si rivela meno disonesto neanche l’oste dell’Osteria del Gambero Rosso, nel Pinocchio di Collodi, che si fa complice dell’inganno del Gatto e la Volpe ai danni del povero burattino, strizzando l’occhio come per dire: “Ho mangiata la foglia e ci siamo intesi!…”

Ma, al di là di questa immagine di ritrovo di ladri, giocatori d’azzardo e truffatori, pronti ad arricchirsi ai danni dei poveri malcapitati di turno, l’osteria è stata soprattutto il luogo dove intellettuali, poeti e scrittori si rifugiavano per trarre la propria ispirazione artistica. Il poeta drammaturgo Pietro Metastasio, alla fine del ‘600, decantava “il profumo di viola” del vino dei Castelli romani; a Ferrara, dove si trova l’osteria probabilmente più antica del Rinascimento (dal 1463) l’Hostaria del Chiucchiolino (ora Enoteca al Brindisi), soggiornarono spesso, a respirare fermento culturale, lo scultore Benvenuto Cellini, i poeti Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, il quale scrisse “Oste mio ne sarai sin ch’al viaggio matutin ti risvegli il nuovo raggio” e l’astronomo Niccolò Copernico, che visse e studiò proprio sopra l’osteria.

BaccoA Roma, l’osteria evoca inevitabilmente la più autentica essenza della romanità. Vengono in mente all’istante gli stornelli d’osteria, tanto più rozzi e sconci quanto più si alzano i calici, o l’inno stesso dell’esser romani, “La società dei magnaccioni”, dove “i giovanotti de ‘sta Roma bella” affermano senza mezzi termini che l’oste che annacqua il vino non verrà pagato. Come non pensare poi ai classici esempi della bonarietà romana, le maschere romane di Meo Patacca, che all’osteria si recava a mangiare e a scambiar battute coi suoi compari, o di Rugantino che, secondo il copione teatrale, proprio all’osteria del boia Mastro Titta lanciò la scommessa che Rosetta sarebbe stata sua, o, ancora, del marchese Onofrio del Grillo, il quale, seppur di nobile casata, spesso vi andava a bere ed a giocare a carte.

Una tradizione che si è mantenuta viva, almeno fino a qualche decennio fa, grazie alle figure più di spicco della tradizione romana, a partire dal poeta Carlo Alberto Salustri, alias Trilussa, che preferì di gran lunga le osterie ai circoli letterari e, a seguire, Pier Paolo Pasolini, Aldo Fabrizi, Alberto Sordi, Giancarlo Fusco, Attilio Taggi, Oberdan Petrini, il poeta Giulio Cesare Santini (padre dell’ex sindaco di Roma Rinaldo), Ennio Flaiano…

Nel ricordo di un tempo in cui a Roma c’erano più osterie che chiese, come affermava Stendhal, negli anni ’60 era ancora possibile per un romano alla ventura trovare rifugio, un piatto caldo e un po’ di compagnia. A testimoniarlo sono anche i film dell’epoca: pensiamo all’osteria dove da anni si continuano a riunire i tre amici Gassman, Manfredi e Flores in “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, per mangiare un bel piatto di manzo alla picchiapò e brindare o alla trattoria di pesce dove Gassman è di casa nel “Sorpasso” o ancora all’hostaria di Tognazzi e Gassman nell’episodio del film “I nuovi mostri”.

Qui ad accoglierti era sempre il saluto degli affezionati, un bicchiere di buon vino dei Castelli ed il profumo dei piatti della vera cucina romana casareccia. C’era l’Osteria della “Rupe Tarpeja”, a Tor de Specchi, sotto via Caffarelli; alla Pace, dietro piazza Navona, c’era “Zì Cannella”, dove la sora Eustasia preparava i suoi banchetti; c’era “Il pozzo di San Patrizio”, fuori Porta Pia, dove si riunivano i pittori; Piperno e ancora il “Giardino Tarpeo” e il “Gattamelata”, dietro al Campidoglio.

OsteriaE oggi, cosa resta di questi luoghi di ritrovo storici? Molto poco, purtroppo. Soppiantate da pub e winebar all’avanguardia in un centro ormai dominio di turisti e stranieri, snaturate nel profondo dai sogni di nuovi clienti e facili guadagni nelle zone più residenziali, vittime della moda e del caro prezzi ai Castelli: trovare una vera osteria dove potersi fermare a fare due chiacchiere davanti ad un bicchiere di vino e cenare alla romana con pochi spiccioli sembra ormai un racconto di favole.

Che cosa è profondamente cambiato? Sicuramente la domanda, di conseguenza l’offerta. La voglia di novità, di cambiare sempre i luoghi di ritrovo e il giro di incontri, per sconfiggere la routine quotidiana, ha fatto sì che sorgessero un’infinità di nuovi locali (che spesso chiudono bottega ancor prima di servire il loro primo drink), propensi ad investire tutte le loro attenzioni in direzione dell’aspetto estetico, tralasciando il fatto che l’ospitalità inizia, e si rende duratura, innanzitutto attraverso il rapporto umano col cliente. In apparenza potrebbe sembrare che a nessuno importi trovare un luogo dove sentirsi come in famiglia, eppure, in questa giostra di novità e mutamenti, il fine è sempre il medesimo per tutti: eludere la solitudine.

Viene in mente il palpabile senso di “absence” dei personaggi del film di Ettore Scola, “La cena” (1998), ambientato in una nota osteria romana, nel film “Arturo al Portico d’Ottavia”: gente diversa, ognuna con la propria storia, ognuna terribilmente derelitta, sebbene in compagnia, che lascia intendere di voler interagire il meno possibile col personale di sala. Il meno solo di tutti è, paradossalmente, un anziano Gassman, cliente fisso del ristorante, che dal suo tavolo solitario si può permettere di godere della compagnia degli astanti, secondo un cliché dei bei tempi passati che confligge evidentemente con l’individualismo imperante dei nostri giorni.

La risposta? Colmare questa grande vuoto “creandosela da sé”, l’osteria, magari diventando clienti affezionati di quei pochi locali di Roma che meglio si prestano a ricreare l’ambiente e la familiarità di questo luogo di culto, sacrale quasi, della spontaneità romana. Perché, in fondo, in questi tempi di celeri cambiamenti, chiacchiere virtuali e locali dall’asettico modernismo, abbiamo tutti una gran voglia di gridare ad una faccia amica “Oste portace n’antro litro …!”

di Flavia Rendina
(pubblicato su Aroma di maggio/giugno 2009)