Sono disposti a spostarsi di centinaia di chilometri solo per scovare un prodotto di qualità, ad investire tempo e soldi per acquistare la più introvabile delle chicche gourmet… ad indagarne approfonditamente gli ingredienti, la provenienza e la storia personale di chi la produce. Vi state chiedendo chi mai lo farebbe? Ma loro, i foodies!

Sono un popolo di “affamati”, anche se qui la fame non c’entra o, perlomeno, non è determinante. Il vero appetito è la cultura, la sete di conoscere, la voglia di sperimentare, e per farlo sono disposti a tutto. In Italia ammontano ormai a circa 8 milioni e continuano ad aumentare. Così perlomeno rivelano i risultati di una ricerca commissionata da Negroni e realizzata dall’Istituto di ricerca GPF, incrociando i dati provenienti da due metodi di ricerca: il Food monitor, che ha seguito nel corso del tempo a partire dagli anni ‘80 un campione di 2.500 italiani per rilevarne comportamenti e attitudini, e una ricerca quantitativa ad hoc su oltre 1.500 persone tra i 25 e i 64 anni con domande sul loro rapporto col cibo.

Al di là dei numeri, il fatto che il mondo della gastronomia si stesse accingendo ad un cambiamento era nell’aria da tempo. Come non notare il boom di turismo enogastronomico, di eventi e degustazioni legate a questo o quell’altro prodotto, di trasmissioni televisive ed editoria di settore… Molti foodies forse nascono proprio da qui, ma sono destinati a diventare qualcosa di più. Perché maggiore informazione significa maggiore esigenza. E una volta che si inizia è impossibile tornare indietro.

Ma cosa sono i foodies? Snob? Gourmet? Spendaccioni? Assolutamente no. Semmai un po’ radical chic. Perché il loro cibo non è elitario, almeno non nel senso convenzionale. Dimenticate lo stereotipo di foie gras, ostriche e caviale: qui è anche un bel panino con la frittata a fare la differenza, purché il pane sia quello Dop di Genzano e le uova quelle di gallina livornese di Paolo Parisi.

Un gourmet democratico, insomma, con le ambizioni del miliardario e l’anima del contadino. Uno che conosca il gusto (quello puro) dei cibi semplici e genuini, sappia quanto sia difficile ritrovarlo nei prodotti della grande distribuzione e che per questo sia disposto ad investire tempo e soldi per trovarlo.

Un cercatore di tesori, e di qualità, che sa per cosa conviene spendere. Per il formaggio di latte crudo del pastore della malga veneta, ad esempio; per il prosciutto fatto con cosce di suino allevato allo stato brado e nutrito solo con ghiande; per il miele biologico di chi ha fatto dell’apicoltura la sua ragione di vita; per la frutta e la verdura di chi ha scelto di recuperare varietà ormai dimenticate; per i salumi di chi utilizza solo tecniche artigianali tradizionali; per il caffè del piccolo coltivatore brasiliano che tratta giustamente i suoi lavoranti; per il prodotto tradizionale la cui ricetta segreta sia custodita solo da alcuni gelosi detentori… Insomma, per i cibi che siano qualcosa di più che puro nutrimento, che rispettino territorio e tradizioni, che abbiano una storia (e un’emozione) alle spalle e che, ovviamente, siano buoni!

Cibi di confine, quindi, quella linea sottile che divide natura e cultura: prodotti della semplicità, dell’autenticità e dell’immediatezza naturali, ma anche dell’abilità, del sapere e della tradizione umane. Cibi che consentano di conoscere il territorio e chi lo abita, attraverso cui sia possibile l’esperienza nella sua accezione originale: conoscere il mondo attraverso i sensi.

Ciò che appaga il palato, appaga anche il desiderio di conoscere, di assaporare una cultura. È ciò che succede durante un viaggio: per capire veramente un Paese, un popolo, spesso bisogna mettersi a tavola. Lo diceva Lévi-Strauss: niente descrive meglio e nel modo più immediato la distanza tra due culture del concetto di crudo/cotto, buono/cattivo, commestibile e non. Sono gli abbinamenti, le spezie, la scelta della materia prima, il linguaggio segreto capace di raccontare di chi ha preparato quel piatto e quale cultura c’è dietro.

In realtà, niente di nuovo: già Feuerbach nell’800 sosteneva che “siamo ciò che mangiamo”. Ma in pochi, come i foodies, ne hanno fatto una filosofia di vita.

di Flavia Rendina
(pubblicato su Aroma di maggio/giugno 2011)