Sarà per le caratteristiche morfologiche del terreno prettamente collinare, oppure perché l’agricoltura soffre di un’importante limitatezza delle risorse idriche, sarà per via della frammentazione o eccessiva estensione dei terreni o, infine, a causa di una scarsa specializzazione nella lavorazione del latte, di fatto nel Lazio si contano poche rarità casearie. Fino ad oggi è stata riservata scarsa attenzione al settore, sovrastato dall’economia del vino. Eppure la tradizione in questo campo risale all’antica Roma così come ci riferiscono Marrone e Columella. All’epoca, il latte vaccino veniva cagliato con l’aggiunta di succhi di fichi, fiori di cardi selvatici, grani di zafferano, latte d’asina, di pecora, di giumenta, capriola e di cerva coagulato. Il latte cagliato era aromatizzato per un certo lasso di tempo con rametti di focaia, di timo, con mandorle di pino sbucciate. Una volta rappreso il latte, si depositava la pasta in appositi cestelli di giunchi intrecciati per far sgocciolare l’eccesso di liquido e si salava. A Marziale, così come alla maggioranza dei Romani, piaceva molto il caseus fumosus, il formaggio affumicato. Ulpiano descrive il processo di affumicazione e racconta delle proteste contro il fumo da parte degli abitanti limitrofi ai locali ove questo processo avveniva. Plinio e Apicio parlano del formaggio nei loro ricettari. Molto più recentemente, anche Trilussa ha dedicato spazio a questo prodotto usato come metafora sociale. Dunque un curriculum di tutto rispetto, dal quale ripartire per dargli il giusto rilievo che merita. Ed in effetti si nota un nuovo slancio in tal senso. Ne sono testimonianza alcune iniziative pubbliche e private miranti a dare o a ridare smalto e visibilità ai formaggi laziali. Il Premio Roma, giunto alla nona edizione ed organizzato a cura dell’Azienda Romana Mercati in collaborazione con Unioncamere Lazio, è una di queste. Nell’ambito di questo evento, si assegnano riconoscimenti ai migliori formaggi d’Europa. Presenti 133 aziende di cui 45 del Lazio. Di queste, 21 sono romane. I premi sono attribuiti per categorie: primo sale, caciotta romana, paste filate fresche, formaggi vaccini stagionati, formaggi ovini stagionati, formaggi caprini stagionati, ricotta, cacio fiore di Columella. Prezioso anche il lavoro svolto, ormai da tre anni, dall’Associazione Formaggi Storici della Campagna Romana (www.formaggiroma.it), che ha recuperato prodotti di capra e di pecora risalenti addirittura a 2000 anni fa. Questi venivano un tempo realizzati nelle terre storicamente al servizio della città di Roma, da Tarquinia all’Agro Pontino.

La “resurrezione” di tali formaggi è stata possibile partendo dallo studio di testi antichi a cui ha fatto seguito un importante lavoro sulla qualità del latte (impiegato crudo), sul caglio (in particolare quello vegetale, ottenuto dai fiori del cardo selvatico) e sulla stagionatura naturale in grotte di tufo. Sono così “rinati” formaggi come il Pressato a mano e il Caciofiore di Columella, dei quali si era persa totalmente traccia e oggi lavorato da un pugno di piccoli produttori. Il Pressato è prodotto con latte di pecora pressato e in seguito affumicato con legno di melo. Di gusto dolce, poco salato. Il Caciofiore invece, si può considerare un antenato del Pecorino Romano, fatto con il caglio del carciofo selvatico. “Conviene coagulare il latte con caglio di agnello o di capretto, quantunque si possa anche rapprendere con il fiore di cardo silvestre o coi semi del cartamo o col latte di fico. In ogni modo il cacio migliore è quello che è stato fatto col minimo possibile di medicamento” (Lucio Giunio Moderato Columella. “De Re Rustica”, 50 d.C.). Oppure i pecorini fatti alla toscana con caglio di capretto e i formaggi di pecora a pasta non cotta, come il Primo Sale, la Caciotta e il classico Pecorino. Il nome Primo Sale deriva dal fatto che viene messo in vendita subito dopo aver dato appunto il primo sale. La sua storia è strettamente legata a quella del Pecorino, ma mentre quest’ultimo ha una lunga tradizione alle sue spalle, il Primo Sale si è imposto negli ultimi cinquant’anni, amato ed apprezzato da coloro che non vogliono formaggi stagionati e piccanti. Sempre per rimanere nell’ambito di piccole realtà locali, citiamo il Marzolino, formaggio di capra originaria dei Monti Ausoni, di cui si è ripresa la produzione in Val Comino. Come indica il nome, questo formaggio, di latte di pecora, si faceva a marzo. A queste piccole perle si aggiunge il Pecorino Romano che è sicuramente il formaggio DOP del Lazio più famoso, peraltro oggi prodotto quasi interamente in Sardegna. Formaggio a pasta dura e cotta, realizzato esclusivamente con latte ovino. Citato anche da Omero, ne parla in modo dettagliato Columella. Nel panorama caseario laziale, posto rilevante lo occupa la mozzarella di bufala della zona pontina. Dal 1996 è DOP. La sua area di produzione è limitata alla Campania e al Basso Lazio. La mozzarella si chiama così per via del gesto compiuto dal casaro quando “mozza” con le dita la pasta. Posto d’eccellenza è riservato al Pecorino di Picinisco, prodotto con latte crudo di greggi portate al pascolo in Val Comino, nella Ciociaria, a ridosso dell’Appennino abruzzese, attualmente in fase di riconoscimento DOP. Fa eccezione la Ricotta di pecora, che nella sua versione romana, tutelata da una DOP, è ben conosciuta e raggiunge livelli di ottima qualità. In realtà la ricotta secondo la legge italiana non è un formaggio poiché non è fatta con il latte bensì con il siero, sottoprodotto della caseificazione. Il termine ricotta deriva dal latino recoctus per via della tecnica di produzione. Greci e Romani conoscevano bene la ricotta e lo testimonia lo stesso Columella, il quale, nel suo De Re Rustica, ne descrive le vari fasi di lavorazione. Per le produzioni con latte vaccino emerge solo la Ciambella di Morolo, un formaggio a pasta filata semistagionato e leggermente affumicato prodotto in alta Ciociaria che merita un discorso a parte.

Il maggiore impegno del settore laziale caseario ha ricevuto ulteriore conferma ne La guida ai migliori formaggi d’Italia pubblicata per la prima volta quest’anno dal Gambero Rosso. Delle dieci aziende laziali valutate, tre hanno ottenuto i tre spicchi di cacio ad indicare la valutazione di ottimo. In particolare, hanno avuto questo riconoscimento la ricotta romana di De Julius, il pecorino di Picinisco di Pacitti e la ciambella di Morolo di Scarchilli. Chiudiamo con qualche consiglio per degustare al meglio i formaggi. Presentarli sempre su supporti naturali (legno, marmo, vetro, ecc.). Per assaporarne a pieno il gusto, tirarli fuori dal frigo (nel quale vanno tenuti nella parte bassa) almeno un’ora prima e servirli a temperatura ambiente. Cominciare la degustazione partendo dal più dolce fino ad arrivare a quelli più stagionati e chiudere con gli erborinati. Conservarli facendo in modo che respirino. Temono sia l’eccesso di freddo che di caldo. Ecco infine qualche suggerimento per gli abbinamenti. Se il formaggio è stagionato, a pasta dura, come il Pecorino Romano, accostate un rosso strutturato, invecchiato (Barolo, Barbaresco, Brunello, Chianti Classico, Taurasi, Aglianico del Vulture). Se invece la vostra passione è la mozzarella, beveteci sopra un bianco leggero o delle bollicine.

LA CIAMBELLA DI MOROLO
Tra l’altopiano dei Monti Lepini e la piana del Sacco, a 400 metri d’altezza circa sorge Morolo, borgo medievale di 3.300 abitanti il quale, insieme a Sgurgola, Supino e Patrica ha fatto parte dei domini della potente famiglia dei Colonna di Paliano e Palestrina, in lotta per secoli contro il potere papale. È qui che, nel 1933, Pietro Scarchilli comincia a produrre latticini freschi e formaggi semistagionati. Dal 2001 suo nipote Massimiliano, spinto dalla vocazione di famiglia e dall’entusiasmo, decide di restringere la produzione ai soli formaggi semistagionati e stagionati di alta qualità, tipologia di prodotto trascurata dai produttori locali, ma con grandi potenzialità qualitative. In passato il cacio veniva prodotto solo nei periodi di esubero di latte in quanto non si disponeva delle adeguate tecnologie per la sua conservazione. Questo formaggio di lunga durata, è stato per molto tempo considerato di scarso interesse commerciale ed economico nonostante il sapore eccezionale di quei pochi pezzi stagionati ad arte. L’idea di Massimiliano è stata quella di riproporlo nel completo rispetto dell’antica ricetta. Si parte dal latte bovino, selezionato in Ciociaria, poi la formatura, realizzata a mano pezzo per pezzo per infine completarsi nell’affumicatura che avviene utilizzando legno di faggio, pioppo o paglia, negli antichi locali dell’azienda dalle ampie pareti in pietra di tufo, nonché provvisti di camini e moderni climatizzatori. Per la filatura si utilizza solo la mastella di legno. Si producono, durante tutto l’arco dell’anno, pezzature da 1 fino a 5 kg che vengono stagionate, nel caso del Gran Cacio piccolo, 5 mesi, nel caso del Gran Cacio grande 10 mesi fino ad arrivare ai 18 mesi per il Gran Riserva. Ogni singolo formaggio è cappato (cosparso) con olio extravergine d’oliva e questo è l’unico metodo adottato per la sua conservazione. Quotidianamente, ogni pezzo viene girato, spostato e coccolato fino alla sua uscita dalla camera di stagionatura. In seguito, il formaggio viene messo a riposare su un morbido letto di trucioli di faggio in una cassetta di legno. Sono proprio l’affumicatura e la stagionatura che trasformano miracolosamente il latte in quel meraviglioso scrigno di sapore che è il formaggio. I buongustai lo apprezzano per il sapore deciso e per la particolare consistenza a scaglie della pasta, che lo rende unico e prelibato. Si abbina perfettamente ai vini rossi (in particolare al Cesanese del Piglio) e alle bollicine. Nel 2007 la Ciambella e nel 2008 e 2009 il Gran Cacio, sono risultati i primi classificati nella categoria paste filate stagionate nell’ambito del Premio Roma. Il gusto unico di questi formaggi non poteva non approdare anche in cucina. Per rispondere all’esigenza di disporre di un prodotto di alta qualità da cucinare, Scarchilli ha realizzato la Ciambella. Gli ingredienti sono gli stessi utilizzati per il Gran Cacio. Anche il procedimento naturale di affumicatura ottenuta con trucioli di faggio è identico. Dopo un breve passaggio sulla piastra o in forno, la Ciambella può essere servita sia come piatto unico che come ingrediente per tutte quelle ricette dove è richiesto un formaggio di grande sapore.

di Elisa Santurri (pubblicato su AROMA Gennaio/Febbraio 2013)