Una delle più felici espressioni della lingua anglo-americana è certo “food for thought”. È una metafora mangereccia (“cibo per la mente”) che fa riferimento all’attività cerebrale, e sottolinea idee, pensieri da riconsiderare, stimoli intellettuali e artistici. Il cinema è davvero uno di questi alimenti per il pensiero. Ma se il cinema è “cibo per la mente” allora non è un caso che il cinématographe abbia avuto inizio con un simbolico omaggio al cibo.

Tra le “fotografie animate” (i primissimi spezzoni di pellicola) che i fratelli Lumière mostrarono ai primi spaventati ed esterrefatti spettatori, a Parigi nel 1895, c’era anche il Repas de bèbè. Si tratta di una bobina di 50 secondi circa, dove Auguste Lumière e la moglie danno la colazione al loro bambino, quasi a sottolineare la nascita del nuovo medium e rappresentando la necessità di nutrirlo. Oggi quel bambino cinematografico ha più di cento anni e ancora molta vita davanti a sé, ma da quel primo semplice pasto a base di biscotti e latte di “pappa” ne ha mangiata tanta. I film dedicati al cibo e alla cucina, al saper mangiare in genere o ad alimenti specifici, fanno parte della storia del cinema, rappresentandone una componente fondamentale.

A scorrere tra i cataloghi del cinema muto italiano si scoprono diverse pellicole che fanno riferimento al cibo. Solo tra il 1906-1910 compaiono: La castagnara, Il dessert di Lulù, Il dolce che scappa, Pranzo provvidenziale, Artista e pasticcere, La corsa alla luganega, La raccolta delle ciliegie, Un cameriere distratto, Il cugino mangiatore di tartufi, Gelato torcibudelle, Cretinetti ha ingoiato un gambero, Pranzo pagato, La vendetta dell’oste. Né manca un classico Ladri di polli (ovvero chi ruba per fame!). Ma quei film di un’epoca da pionieri sono andati perduti. Però tutti sanno che subito dopo l’avvento del cinema, in Italia come nel mondo intero, sono venuti per primi i film comici, ovvero una curiosa associazione tra il dolce e il buon umore. Insomma i film delle “torte in faccia”, in cui la panna che si spiaccica sulla faccia del malcapitato di turno rappresenta una rottura della norma, una critica alle regole dal sapore anarco-culinario.

Da allora cibo e cinema procedono insieme. Non esiste forse pellicola dove il protagonista prima o poi non si sieda e mangi, fosse anche un semplice hot dog consumato nella macchina di servizio da uno dei tanti detective del cinema poliziesco, o un hamburger precotto servito da Al Pacino in Paura d’amare. Anche se “veder mangiare” per i più sofistici non sempre rappresenta un piacere, come capita al nevrotico Woody Allen di Prendi i soldi e scappa, che si innamora di una ragazza per il modo garbato in cui mangia.

Alcune battute tra le più celebri di Totò sono collegate al cibo: chi non ricorda il suo enigmatico e surreale “birra e salsicce!”? O alcuni film famosi con titoli dedicati ad alimenti o alla cucina? E ovviamente il cinema ne ha molti relativi all’alimento principe, il pane: Marcellino pane e vino, Pane e tulipani, Pane amore e fantasia (dove poi la fantasia è sostituto del companatico). Come scordare il dialogo disperato di Ladri di biciclette: “Nun te la dovevi impegna’ la bicicletta!”, “E cche tte magnavi allora?”. La bicicletta è al monte di pietà e i soldi sono stati letteralmente “mangiati” dalla famiglia; gli ultimi verranno spesi dal padre per una romanissima “mozzarella in carrozza” per il figlio, Bruno.

Ma negli anni difficili del Neorealismo il mangiare è stato sintomatico riferimento a una condizione umana: in Roma città aperta le uova vengono offerte alla Magnani a prezzi di borsa nera, costose come gioielli; l’umile zuppa di cavoli che bolle sulla stufa della sagrestia è ricordo di un mondo che è stato e per fortuna non c’è più.

Mezzo cinema italiano per tutti gli anni Cinquanta, fino al boom economico, continua a raccontare la fame atavica di un popolo. Le storie ruotano attorno a cibi semplici che impiegheranno anni a diventare ricette da ristorante gourmet: si pensi alla bruschetta, ora così di moda nei ristoranti di New York, ma di fatto nata per recuperare il pane raffermo e qualche pomodoro troppo maturo. Ad Alberto Sordi in Una vita difficile per disertare gli ideali partigiani basta trovare una fidanzata che lo rimpinza tenendolo nascosto. Finirà per elemosinare un cestino da comparsa a Cinecittà. Un personaggio di De Sica in Il segno di Venere invita tutti a cena in trattoria e poi non ha i soldi per pagare il conto. Il popolo di barboni senza casa di Miracolo a Milano organizza una riffa che mette in palio un semplicissimo pollo arrosto e poi resta a guardare il fortunato vincitore che mangia, tutti con l’acquolina in bocca. Ma si sa, la fame non ha gusto, e in La febbre dell’oro anche Charlot non guarda tanto per il sottile, e si cuoce le stringhe degli scarponi nemmeno fossero spaghetti succulenti. Ecco il punto: il “non plus ultra” delle esperienze culinarie cinematografiche nostrane sono rimasti a lungo gli spaghetti: i digiuni personaggi di Miseria e nobiltà se li ficcano addirittura in tasca; l’indimenticabile “bamboccione” di Un americano a Roma, così refrattario a esotismi culinari o a cibi pseudo-salutisti, se li divora a mo’ di provocazione, apostrofandoli genericamente “maccarone!”.

Negli anni intercorsi dalla Colazione del bèbè dei Lumière, il cinema ha tuttavia saputo celebrare l’arte culinaria in maniera assai complessa. Attraverso il cibo il cinema ha simbolicamente raccontato storie, metafore, visioni del mondo. Fellini ha descritto la corruzione dell’età classica attraverso la cena di Trimalcione nel Satyricon. Il cinema western ha condensato tutta l’epopea mitica del far west nelle scatole di fagioli aperte e riscaldate sulla padella dai cowboys. E se si guardano certi film di fantascienza, si coglie una certa inquietudine nei confronti di una possibile dieta sintetica. In Il pianeta proibito, solo il whisky prodotto artificialmente dal robot-tuttofare resta di ottima qualità…

Mentre nel futuristico Blade Runner Harrison Ford ha una passione per il sashimi giapponese (ma un collega lo sfotte per quella dieta “al mercurio”). La compresenza di sesso-cibo-morte sottostà a molto del cinema sarcastico e formalistico dell’inglese Peter Greenaway: sia in Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (un adulterio avviene in un ristorante esclusivo con la complicità dello chef) sia in Il ventre dell’architetto (dove un ventre gonfio segnala lo scontro tra l’arte e il corpo). Non di rado il momento del pasto costituisce il brano più indimenticabile di un film. In Harry ti presento Sally Meg Ryan si esibisce in un finto orgasmo nella sala di un ristorante di New York. E la scena (anzi: la s/cena) più irriverente del Free Cinema inglese resta il duello gastro-erotico di Tom Jones, dove un uomo e una donna quasi si sfidano mangiando e guardandosi esplicitamente negli occhi.

Ad alcuni cibi, piatti o specialità sono state dedicate intere pellicole, come La ricotta (peraltro indigesta) di Pasolini o Il minestrone di Citti (ma indimenticabile resta il minestrone che fa innamorare Robert Redford in I ponti di Madison County); come Pomodori verdi fritti alla fermata del treno o Prosciutto di Bigas Luna (ennesimo sgangherato accostamento tra cibo e sesso). Qualche volta le storie ruotano attorno a ricette segrete, come quella della torta alla panna di Susanna tutta panna o della pizza di Mystic Pizza. In L’anatra all’arancia Tognazzi tenta di riconquistare la moglie cucinando appunto il piatto da lei preferito (ma l’anatra viene servita anche in Babe, maialino coraggioso per rispetto al maiale!). Altri film celebrano branche specifiche dell’arte del mangiare. Ad esempio, La finestra di fronte ha esaltato l’arte pasticcera, capace di riscattare creativamente le vite di certe vittime. E indimenticabili sono le multiformi, innumerevoli torte e pasticcini colorati che Kirsten Dunst consuma in Marie Antoinette di Sofia Coppola, altro che le sue famose brioche! Ma il consumo di dolci più divertente e anticonformista del cinema appartiene a Vittorio Gassman. Ne “Il sorpasso” il grande mattatore, rimasto solo in un ristorante della Versilia, seduto al tavolo abbandonato dai commensali, trangugia in un unico “risucchio” un intero crème caramel, quasi per sfregio e senza cucchiaino. Insomma, ciascuno ha la sua ricetta, il suo mangiare, secondo il ruolo: Russel Crowe in Il gladiatore consuma giustamente zuppa di farro…

Il cibo sullo schermo ha molte facce. Si fa sensualità in film come Chocolat. Ma sulla cioccolata al cinema ci vorrebbe un libro, che includa la Nutella o la Sacher, tanto amate da Nanni Moretti. Tra i film più recenti: Grazie per la cioccolata, Charlie e la fabbrica di cioccolata, Lezioni di cioccolato; anche se il titolo più simbolico rimane Pane e cioccolata, che sottolinea l’accostamento semplice e all’apparenza inconciliabile tra due modi di essere (il pane italiano, bianco, soffice ed economico, e la cioccolata svizzera, scura, croccante e cara da acquistare: simboli di un’identità migrante sospesa a metà).

Il cibo può avere radici storiche o culturali come la polenta di Novecento (a proposito di alimenti e di Bertolucci, come mai certi film indigesti vengono definiti “polpettone”?), ma soprattutto in film come Big Night, dove una radicale integrità culinaria per il timballo e per la buona tavola costa allo chef italo-americano (Stanley Tucci) la perdita della clientela, assai meno raffinata di lui. Ma il timballo di maccheroni viene sfornato anche nella Sicilia ottocentesca de Il Gattopardo di Visconti. Il cibo si fa malinconia in certi film di Ettore Scola, come La cena (apologo crepuscolare della società italiana, svolto attorno a un ristorante). Ma anche le molte cene di C’eravamo tanto amati hanno un tocco malinconico: la conoscenza di Stefania Sandrelli da parte dei protagonisti avviene sempre grazie al cibo o a tavola: che sia la dieta libera dell’ospedale o le mezze porzioni di “picchiapò” al ristorante economico.

Il cibo diventa struggente commiato dalla vita nello splendido Il pranzo di Babette, in cui una cuoca in pensione organizza a sue spese una cena per degli anziani di uno sperduto villaggio norvegese: la cena, sontuosa e raffinata come un’opera d’arte, sarà come il suo canto del cigno e un ritorno al sapore della vita per gli anziani.

Insomma, alla bisogna tutto può diventare cibo, però il cibo può diventare ossessione: in La carne Castellitto si mangia l’amante! Anzi, senza entrare in dettagli, il cannibalismo al cinema sembra diventato di moda dopo Il silenzio degli innocenti. Si va dall’orrido Hannibal the cannibal all’eccentrico e divertente Delicatessen, fino al recente Sweeney Todd di Tim Burton. Molto più spesso, per fortuna, il cibo è felice celebrazione della vita, come in Ricette d’amore (accurato ritratto degli ambienti culinari di un raffinato ristorante d’Amburgo) o come nel recentissimo Cous cous: il piatto nord-africano che unisce intorno alla tavola animata un’intera famiglia franco-araba. Ma si ricordi che “etnica” per il resto del mondo resta la nostra cucina, in primis l’italica pasta: Al Capone in Scarface consuma spaghetti e i mafiosi de Il padrino si cucinano il sugo al pomodoro.

Gli italiani che emigrano all’estero aprono una Spaghetti house, dove Nino Manfredi tesse gli elogi degli spaghetti alla puttanesca. D’altra parte esistono anche gli spaghetti giapponesi, i “ramen”, celebrati in Tampopo: definito un vero e allegrissimo inno all’arte culinaria orientale, insieme a Mangiare bere uomo donna. In quest’ultimo film, di Ang Lee, un cuoco vedovo, anzi il “miglior chef di Tampei”, ricuce il rapporto genitore-figli usando il cibo come mezzo di comunicazione. Un bellissimo film agro-dolce, come certe portate orientali, vera metafora dell’esistenza.

Oggi, insomma, il cinema di tempi diversi ha sguardi e alimenti diversi dai maccheroni albertosordiani. Il gusto incontra pietanze e pellicole più sofisticate: impossibile elencarle tutte. Gli chef professionisti diventano star televisive, ma divi lo sono da sempre, come dimostra Vatel, in cui Depardieu interpreta il cuoco provetto di corte del Re Sole. Ne’ i cuochi fanno una vita facile (in Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d’Europa vengono sterminati secondo l’ordine di un raffinato menù).

Oggi non mancano documentari come Supersize me che raccontano gli effetti deleteri del fast-food (o junk-food) industriale. In fondo, già il Ferreri de La grande abbuffata aveva allestito un’orripilante (quasi empio) apologo sul cibo vissuto negativamente, in maniera abnorme, esagerata, con personaggi che ingurgitano smodatamente manicaretti fino all’autodistruzione: un karakiri gastronomico che trasforma l’assunzione di cibo in manifesto politico e sostanziale accusa alla società.

Oggi, per chi sia interessato, si trovano persino bei libri che raccolgono le ricette utilizzate per questi film, vedi Tutte le donne della mia vita o Sapori e dissapori. Sono i tempi in cui addirittura un povero topo dei cartoni animati agogna di diventare un grande chef, un maestro-poeta dei fornelli come in Ratatouille. Ma, in fondo, intendiamoci: se per un’ottima ratatouille è comunque meglio avere un cuoco professionista, non dimentichiamo che la ratatuglia è anche, da sempre, un piatto popolare, della nonna. Chissà, forse – nel segno del dovuto recupero delle ricette regionali italiane – prima o poi gireranno anche un film-antologia sui formaggi, una storia d’amore sulla farinata ligure o sulla focaccia genovese…

(pubblicato su Aroma di settembre/ottobre 2008)