Gino al Parlamento

Forse nessun’altra cucina più di quella romana richiama alla mente quell’idea di gioia e convivialità che ha accompagnato il gusto della tavola fin dai tempi dei banchetti luculliani o dei pranzi papalini. E’ il piacere mai perduto dello stare insieme per ricercare il buon umore e la buona compagnia, perchè isolarsi – obbedendo ad un atavico istinto più che ad una scelta meditata – significa noia, nemica giurata di tutto il popolo romano.

Così la tavola diventa momento di aggregazione sociale, occasione d’incontro della gente per mescolarsi e conoscersi meglio, in un’atmosfera di ottimismo e di bel tempo, anche quando “fuori piove”. In tutto ciò la cucina propriamente detta – quella che cioè risponde ad una necessità essenziale dell’uomo – non sembra affatto essere relegata ad un ruolo subalterno ma è capace di esprimere tutta la propria fresca vitalità aggiungendo al sapore delle parole quello dei piatti tradizionali. Proprio come il carattere degli abitanti quella di Roma è una cucina semplice e genuina, aperta alle esperienze altrui pur conservando una propria identità nel fedele attaccamento a ricette e ingredienti di origine antichissima. Pensiamo ad esempio alle erbe dal sapore intenso assai apprezzate dai Latini come l’afrodisiaca rughetta o il sedano, puntualmente recuperate dalla cucina popolare e dalle sontuose mense papaline, al pari di altre ghiottonerie di ogni tempo, come le anguille che causarono la morte per indigestione a Papa Martino IV, collocato da Dante nel girone dei golosi.

Un po’ schematicamente la cucina romana si può ricondurre ad almeno tre filoni caratterizzanti: quello del “mangiar giudìo”, di estrazione ebraica, che ha dato il proprio importante contributo con una serie di piatti strettamente legati alle ricorrenze religiose del calendario e basati sul rispetto scrupoloso di alcune regole fondamentali che escludono ad esempio il maiale, i quadrupedi non ruminanti con lo zoccolo spaccato, i molluschi, i pesci di pinne e squame. In secondo luogo risulta determinante l’influenza esercitata dalle culture regionali, che trova il proprio epicentro nell’entroterra del paese di Amatrice, tanto che ancora oggi si discute sui celebri bucatini e sulla corretta esecuzione di una ricetta tanto fortunata. Dalla Ciociaria vengono invece gli spaghetti alla carbonara, altro piatto emblema della cucina romana di ieri e di oggi che, come suggerisce il nome e la stessa composizione (uova, pancetta fritta, pecorino grattuggiato), nasce dalla fatica del lavoro umano. Infine la cucina del mattatoio, meglio conosciuta come quella del “quinto/quarto”, inventata dagli operai, gli “scortichini”, utilizzando i tagli di scarto delle carni, le interiora come la pagliata, la coratella, il rognone e simili, il cui gusto deciso viene temperato dall’impiego misurato dei condimenti. Su tutte le pietanze trionfa l’abbacchio, autentico piatto forte della ristorazione romana mentre il pesce, soprattutto in tempi più recenti, conquista i favori della tavola bagnata, come sempre dal biondo vino dei Castelli che infonde energia vitale e favorisce i sogni.

Giggetto al Portico d’Ottavia

La tradizione e l’immediatezza nell’esecuzione, immuni dalle complicazioni concettuali, prevalgono dunque sulla novità nonostante le moderne acquisizioni orientate verso i piatti di mare. Si tratta di una semplicità ereditata dal passato, dalla storia umile del popolino costretto ad arrangiarsi per potersi sfamare. La cucina romana nasce del resto dalla necessità quotidiana e dalle ristrettezze economiche ed è quindi capace di reinventare se stessa giorno per giorno, utilizzando quegli ingredienti poveri che le donne sagge in cucina non si facevano mai mancare. Con l’avvento delle democrazie, perché “a tavola – per citare un vecchio adagio – si è tutti uguali”, la cucina cardinalizia o aulica, caratterizzata da cibi ricercati e costosi, ha finito per essere fagocitata da quella popolare che è riuscita a sopravvivere aggiornandosi ai tempi e mantenendo integro il suo temperamento schietto, così simile all’indole degli abitanti.

Qualunque sia la sua discendenza, tra miseria e nobiltà, la cucina romana è la cucina della gente, lo specchio fedele di un’attitudine incline alla socialità e alla gioia di vivere, che sono componenti essenziali del piacere goloso.